Dal più grande medium del Canada (le cascate del Niagara, cit) alle ‘simmetrie moleste’, dai lupi (forse) a guerre e paci: un mese di giornali nel mondo
Oceano Canada. Chi non vorrebbe andare in Canada, questi Stati Uniti senza impero e più verdi, più bianchi, più freddi, bilingui, lunghi come tutti gli Stati Uniti messi insieme? Se non vuoi sentirti in America (del Nord), ti sistemi dove prevale il francese. Se vivessi in Canada non comprerei il National Post. Non so, oltre al New York Times dei vicini, quale quotidiano leggerei. Il National Post ti fa l’effetto del Figaro alla quinta. Ti chiedi chi potrebbe essere il suo lettore ideale trovando risposte immediate, ritratti resi più netti dal fatto che nella parola composta centro-destra è sparita da molto la prima parte. E mantenerla diventa un equivoco o una provvidenziale, accidentale dimenticanza. Resta forse un quotidiano ben fatto – intendo il Figaro – che non si traveste da altro, accurato. Piuttosto mosso nelle opinioni, non superficiale, abbastanza sanamente agguerrito. Tornando al National Post: una singolare seconda pagina (‘Navigator’) – singolarità cui ricorrono altri, a cominciare dallo stesso ‘NYT’, con risultati diversi – dai temi eterogenei; dalle quattro alle sei pagine per il ‘Canada’; due o una (e dopo il ‘Canada’) per ‘World’; molte per la sezione ‘Financial’; non poche per ‘Sport’; in ‘Arts & Life’ c’è più che altro ‘Life’ (e Show), e l’Art è la più spicciola e tangenziale. Su questo si prova a recuperare, a fatica, con l’ultima del sabato, ‘Books & Writers’. Dimentico la sezione delle opinioni (‘Issues & Ideas’), il luogo in cui un quotidiano si scopre di più.
Il ‘N.P.’ ha la veste (pluri-premiata) del quotidiano nazionale di riferimento e i contenuti del giornale locale. Torneremo su questo quotidiano perché il fascino non ha segno. Attrae ciò che preferisci e ciò che ti disgusta. Affattura l’autenticità e il suo opposto. Fermo restando che anche questa nota sarà ingiusta. Non c’è forse un solo giornale in cui non si possa leggere, tutti i giorni della settimana, almeno un articolo, reportage, corsivo che valgano la pena. Il che è parte dell’attrazione, e del mistero, di un quotidiano.
‘Oceano Canada’ è il titolo di un documentario, del 1973, del cui testo è autore Flaiano. Nel quale si legge, sul finale: “Quanto tempo ci vuole per fare una barchetta con gli appunti che restano e che ormai sono inutilizzabili. Appunti su persone, su cose viste appena di sfuggita, e che meritavano di essere riprese, forse. Non ci resta che affidare questo messaggio incompleto al più grande medium del Canada, anzi al solo medium che contiene il suo proprio messaggio, le cascate del Niagara”.
Simmetria. Non so cos’abbia ritoccato Kate Middleton nella sua sventurata fotografia. Ha dovuto dire che ha un tumore perché la lasciassero in pace, repubblicani e monarchici. Poiché nell’epoca o nell’era del politically correct (per scriverlo nella lingua di chi se l’è inventato) non sono giudicati scorretti, curiosamente, i peggiori insulti. Alla figlia dell’imperatore giapponese, e figuriamoci al padre, non verrà in mente di ritoccare la foto ufficiale per l’esordio della famiglia in Instagram, pagine al sicuro dalla minima ombra di polemica fino alla caduta dell’impero, perché i commenti verranno giustamente setacciati.
Il ritratto cattura come tutto quanto è giapponese. Cerchi le minime dissimmetrie nella simmetria essenziale. “La simmetria molesta, ma soltanto all’inizio”, diceva Josep Pla. L’imperatore al centro, sorridente, mani sulle ginocchia. Moglie e figlia ai lati, dove solo possono prodursi i piccoli mutamenti: le mani delle due a coppa sul grembo, in un caso la destra sopra, nell’altro la sinistra. Forse un bottone in più nel vestito dell’imperatrice. Ma la spilla sta alla sinistra dell’abito in entrambe. Dietro, alla destra dell’imperatrice si scorge una scatola, alla sinistra della figlia una statuina. L’acconciatura della figlia è simmetrica a quella del padre, non della madre, la quale ce l’ha perfettamente simmetrica in sé. L’abito della giovane è bianco; quello della madre lo diresti bianco se non avessi sotto gli occhi la cravatta del marito. Al collo delle due una collana di perle, che nel caso della giovane sfiora la maglia...
Trovo il ritratto nella Folha de S.Paulo del 2 aprile.
Frontiere. Un quotidiano non ha fondo. Puoi perderti in una sola pagina, per ore. Dipende dalla pagina, dal quotidiano e da quanto rallenti la lettura. Nella stessa pagina del giornale brasiliano, la 11, mi perdo nella mappa degli Stati Uniti. Riassume, in rosso, blu e giallo, la legislazione dei vari Stati sulla cannabis. Conosco i tre Stati rettangolari, confinanti: Colorado, Utah, Wyoming (allo Utah manca un rettangolino, che appartiene al Wyoming). Un abitante del Colorado che pensa al proprio Paese vede un rettangolo. Saranno quattro o cinque gli Stati, tutti sulla costa Est, che non hanno almeno una linea retta nei confini. Molti ne hanno due, non pochi tre. Rette, poligoni come nei Paesi africani.
La forma dei Paesi è decisa dal mare, dai fiumi, dai righelli, dai monti. Le isole hanno i confini più facili, decisi da nessuno. Anche le isole Paese e le isole Continente. Le frontiere americane saranno state stabilite di comune accordo, comune tra i più forti; le africane di comune accordo degli altri. Ed ecco l’ennesimo vantaggio dei cervi e delle capre selvatiche, dei lupi, delle talpe, dei tassi su di noi – degli uccelli su noi e loro –: ignorare le frontiere. Gli orsi risalgono l’appennino fino alle Alpi e le scavalcano. I lupi dalle Alpi arrivano ai Pirenei attraversando la Francia. Quindi trovano una catena non interrotta di monti. O di colli, con tratti di spiaggia nemmeno tanto brevi. Nella città in cui sono nato l’anno scorso è apparso un lupo che non si sapeva se era un cane. Magro e solo, pelo sul grigio-giallino, vagava per le strade e faceva un giro sulla spiaggia, attraversata la ciclabile. Qualcuno lo avvistava, poi non si vedeva più. Ne ho perso le tracce dopo pochi giorni e ho messo ogni cura nel perderle. Di quello che ne diceva un veterinario, ascoltato attentamente, non ricordo una parola. Salvo che per lui non era un cane. Non so se se n’è andato solo, se sia stato catturato per riportarlo su qualche pendice o vetta appenninica. Non so nemmeno se era un lupo. E ora è troppo facile verificare, se l’hanno capito.
Una copia fresca fresca alle 10 di sera. I giornali costano poco. Non so quanto sia compensata una colonna di Leila Guerriero, ma la sorpresa è che paghiamo quasi niente per leggerla. Appena atterrato a Berlino, portato dall’onda dei viaggiatori, noto una bacheca trasparentissima. Un parallelepipedo con una larga apertura, bella fessura per infilare la mano e prendere una copia del Tagesspiegel fresca fresca (è notte, ma non l’ha ancora sfogliata nessuno). Infilare la mano... E poi? Può essere? Che faccio? Sei un italiano all’estero, mi ammonisco. Anzi un italiano in Germania. L’onda continua a trascinarmi e non ho tempo per decidere. Rischio di dover aspettare il treno successivo. Un signore mi lancia uno sguardo consapevole, divertito, ironico e dissuasivo, ma il ricordo è appannatissimo. Forse è un signore mai esistito. Dopo i trenta secondi di dubbio e paura, la certezza. Sollievo, imbarazzo, residui di vergogna. Domani mattina vai all’edicola, mi dico, e chiedi il Tagesspiegel e lo paghi.
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Si vis pacem, para pacem. Alla parola “guerra” la prima reazione può essere la distrazione, ormai, come alla parola “pace”. Non si può parlarne senza ripeterle, così occorrerà meditare bene, chi scrive e chi ascolta, le parole che le accompagnano.
María Zambrano torna dall’esilio a ottant’anni, nel 1984. Quando lascia la Spagna ne ha trentacinque. Vivrà il suo destierro tra Messico, Cuba, Francia, Italia – nell’amatissima Roma – e Svizzera dove risiederà vent’anni, a La Pièce, e negli ultimi quattro a Ginevra. Al tempo del rientro in Spagna non è più in grado di leggere e scrivere sola, ma inizia una folta collaborazione con giornali e riviste. L’ultimo articolo dettato, a tre mesi dalla morte, s’intitola ‘Los peligros de la paz’ e uscirà su Diario 16, importante testata che ebbe 25 anni di vita (1976-2001).
Una pace che è semplicemente non-guerra, scrive, è sempre pericolante. Una pace conseguenza dell’inerzia e del timore è finta e incerta. Non solo: è mantenuta con nostra “vergogna”. Poiché quella vera “è un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta (...), la condizione preliminare per la realizzazione dell’uomo nella sua pienezza, poiché la creatura umana è una promessa (…)”. Sotto la superficie di amarezza o di allarme, l’appello è pieno di fiducia nell’essere umano. “E così uno stato di pace autentica non ci sarà finché non sorga una morale vigente ed effettiva indirizzata alla pace, finché non si incanalino le energie assorbite dalla guerra e l’eroismo (…) non incontri strade nuove, finché la violenza non sia cancellata dai nostri costumi e la pace non sia una vocazione, una passione, una fede che ispira e illumina.”
“Un modo di vivere, un modo di abitare il pianeta... ”. Quanto alle nostre guerre e paci personali, dunque, famigliari, quotidiane, mi sento di aggiungere una proposta, non ‘peligrosa’ ma anche non facile. Proporsi di avere sempre torto. Dare la ragione agli altri, al tuo interlocutore, quasi senza eccezioni. Tacere, ascoltare. Credere a TUTTO quello che dicono su cosa fai o dici di maldestro, egoistico e sfasato. E provare a rimediare. Considerare che la possibilità di alzare la voce, per te, è tagliata fuori per sempre dal novero degli atti umani. Sai che pretendere la ragione ti mette in un luogo scomodo e chiuso, dalla vista su un muro. E toglierla agli altri, oltre che un tic è un sopruso che non vedi, tra l’arroganza e l’oltraggio. Non averla e non volerla è un declivio e un avvallamento, tra sole e ombra, nella temperatura perfetta.
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Al rovescio. Il torto a ogni costo. Voler avere sempre la penultima parola. Fare di virtù necessità. Le notizie in tempo irreale. La tentazione ricorrente di credere che a pensare tutto al rovescio fai la cosa giusta.