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Cannes, Jacques Audiard e Jia Zhangke raccontano il nostro tempo

Deludono invece il compitino di Yórgos Lánthimos e l'horror involontariamente comico di Coralie Fargeat

Jacques Audiard
(Keystone)
20 maggio 2024
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Un lunghissimo weekend di gran Cinema sulla Croisette bagnata da un placido sole offuscato solo dalle prime nubi nella serata di domenica. Sulle decine e decine di schermi sono passati centinaia e più di film, tra proiezioni ufficiali e mercato, un mercato che da sempre è il barometro dello stato delle immagini in movimento sul nostro pianeta, e il barometro segna un sicuro buon tempo. Intanto qualcuno si è divertito a compilare una speciale classifica, quella dei film più applauditi in questi primi anni del nuovo millennio, e il primo in classifica, non ha stupito molti, è stato ‘El laberinto del fauno’ di Guillermo del Toro nel 2006 (22 minuti), al secondo posto ‘Fahrenheit 9/11’ di Michael Moore nel 2004 (20 minuti), e al terzo posto un film che forse pochi ricordano: ‘Mud’ di Jeff Nichols nel 2012 (18 minuti), tallonato con 17 minuti di applausi da ‘The Neon Demon’ di Nicolas Winding Refn nel 2016. Si tratta delle proiezioni ufficiali con il pubblico, comunque il risultato è un’altra maniera di raccontare la storia del Cinema a Cannes.

In Concorso sono passati ‘Emilia Perez’ di Jacques Audiard, ‘Feng liu yi dai’ (Caught by the Tides) di Jia Zhangke, ‘Kinds of Kindness’ di Yórgos Lánthimos, ‘Trei Kilometri Pana La Capatul Lumii’ (Three Kilometres to the End of the World) di Emanuel Parvu e ‘The Substance’ di Coralie Fargeat. Il regista francese Audiard, uno che il cinema lo sa fare e far amare, ambienta un avvincente musical nel Messico dei narcotraffici e della corruzione politica e civile, dando vita a una splendida commedia, coadiuvato da un'esplosiva Karla Sofía Gascón, che gioca in modo a dir poco superbo il suo essere trans. Nel film è Manolo, uno dei più ricercati e crudeli capo cartello, sposato con due figli che ama follemente; a un certo punto incarica Rita (la bravissima Zoe Saldaña, che ricordiamo come Neytiri in ‘Avatar’), una giovane avvocata incapace di fare carriera visto che è donna in un mondo machista, di trovargli un ospedale sicuro, all’estero, per cambiare sesso, diventare finalmente la donna che si sente dentro. Lo troveranno in Israele e Manolo, dichiarato morto, diventa Emilia Perez, una benefattrice del popolo che si impegna con la sua onlus a scoprire le migliaia di fosse comuni dove i cartelli della droga hanno seppellito innocenti cittadini. Belle le canzoni, convincente il cast, al fulmicotone la regia, che dire: lo spettacolo è coinvolgente.

In un altro mondo ci porta ‘Feng liu yi dai’ (Catturati dalle maree) di Jia Zhangke, che raccontando una ventennale storia d'amore fallita tra una cantante e un losco promoter musicale, riesce a portare sullo schermo l'epocale storia recente della Cina dell’ultimo ventennio. Si parte dalla città di Datong, nel nord-est del Paese, nel 2001, dove inizia la storia d’amore di Qiao Qiao (l’intensa Zhao Tao, moglie del regista), operaia che arrotonda cantando, e il suo manager Guao Bin. Il regista usa la loro storia per riflettere, quasi insensibilmente, ma mai freddo documentarista, su tutte le novità che la Cina ha dovuto accogliere, su tutti i grandi sconvolgimenti per i quali l’immensa popolazione ha dovuto fare sacrifici. Il millennio si apre con gli uomini d'affari mafiosi che hanno avuto successo nella Cina moderna, per arrivare alla sentita emozione per poter ospitare le Olimpiadi del 2008 e l’immane stupore, che tutti rende attoniti, per la creazione della diga idroelettrica delle Tre Gole, e il dolore silenzioso e politicamente nascosto per le comunità sfollate. Di questo già parlava il regista in “Still Life” Leone d'Oro a Venezia nel 2006. E si arriva, infine, con il dramma del blocco per il Covid. È in questo tempo che i due amanti dell’inizio si ritrovano: lei l’aveva cercato ovunque affrontando un mondo finalmente sconosciuto, non la Cina millenaria ma la Cina del nuovo millennio. Non è una storia felice: solo un grande film sull’umanità in cammino, in un cammino che per ora non prevede memoria.

L’attesissimo ‘Kinds of Kindness’ di Yórgos Lánthimos è un bell’omaggio al racconto breve, tipologia nella cui scrittura eccelleva Alice Munro, recentemente scomparsa. Lánthimos usa lo stesso cast composto dall’impagabile sua primadonna Emma Stone, che qui ha come paggi l’abituale Willem Dafoe con Jesse Plemons (piuttosto debole), e come dame Margaret Qualley e Hong Chau. Per Lánthimos purtroppo si ferma a un gelido lavoro tecnico, in cui eccelle, non trova lo slancio poetico di ‘Poor Things’ ma compila un compitino incapace di emozionare anche quando la protagonista si taglia un dito per cuocerlo all’indifferente marito che glielo ha chiesto: il gioco è volutamente orrorifico ma da battuta tra amici e niente di più. Peccato. Su un tema horror si è mossa con il suo ‘The Substance’ anche Coralie Fargeat, provocando, involontariamente, le più grasse risate in sala. La ‘Substance’ del titolo è un preparato chimico che permette all’invecchiata diva televisiva Elisabeth Sparkle, una pur brava Demi Moore, non di crearsi un avatar, ma la copia ringiovanita di se stessa, con il sistema del raddoppio della cellula, la copia si stacca proprio dal suo corpo. Il problema nasce quando la giovane nata, Sue, una Margaret Qualley più impegnata che nel film di Lánthimos, si innamora del proprio vivere disprezzando la cellula natale. A questo punto dopo cambi e ricambi, si è già annoiati, e non tirano su il morale neppure il trionfante spruzzo di sangue che tutto sommerge, anche il ridicolo mostro che è il prezzo del troppo volere delle due donne. Non è il ritratto di Dorian Gray e neppure lo strano caso del dottor Jekyill e Mr. Hyde, è solo un brutto film di cui non si sarebbe sentita la mancanza in concorso.

Meglio assolutamente il rumeno ‘Trei Kilometri Pana La Capatul Lumii’ (Three Kilometres to the End of the World) di Emanuel Parvu, un film sul dramma di un diciassettenne che si scopre omosessuale, in un paesino della provincia rumena, dominato da un finto peso religioso e da un corrotto sistema di giustizia e affari. Il ragazzo viene prima picchiato dai figli del boss locale, poi chiuso in casa ed esorcizzato dai genitori e dal pope, infine tradito anche dai servizi sociali che volevano mettere in mostra la verità del suo caso, ma fermati dal loro capo in combutta con il boss. In cambio del suo silenzio al ragazzo viene dato il permesso di lasciare il paesino. Un film duro e sincero, uno spaccato di un mondo incapace di aprirsi ai tempi nonostante l’uso esagerato dei telefonini. Se pensiamo a quanti in Europa ancora combattono l’omosessualità, un film necessario. Tanti applausi.

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