laR+ L'intervista

Samuele C. e la Regina bianca

Una storia di dipendenza tutta ticinese che fa luce su di un sottobosco spesso ignorato da chi non sa cosa voglia dire avere una scimmia sulla schiena

Il rifugio da un’esistenza frustrante
25 maggio 2024
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“Ho imparato l’equazione della droga. La droga non è, come l’alcool o come la marijuana, un mezzo per intensificare il godimento della vita. La droga non è euforia. È un modo di vivere”. Così scriveva William S. Burroughs in ‘La scimmia sulla schiena’, romanzo autobiografico e spietato che racconta con minuzia scientifica effetti, sensazioni e conseguenze dati dall’uso di sostanze come eroina, morfina, oppio e chi più ne ha più ne metta. Una geografia del dolore e della dipendenza che si trasforma in scrittura, in racconto lucido, offrendo al lettore dosi sempre più dettagliate di conoscenza sulla tossicomania: un’esperienza tanto totalizzante da prendere il posto della vita stessa, diventando mezzo e fine, strumento e obiettivo. Basta poco, a volte pochissimo per rimanerci invischiati. E non si dimentica. Si può provare a farne qualcosa però, come Burroughs, ad esempio, e tanti altri prima e dopo di lui.

‘Scacco alla regina bianca’, edito da Fontana edizioni, è il racconto in prima persona di un giovane che, sotto lo pseudonimo di Samuele C., ripercorre la sua storia di dipendenza portando alla luce un sottobosco claustrofobico e segreto spesso ignorato da chi non sa cosa voglia dire avere una scimmia sulla schiena, un’astinenza che ti spezza in due, pesante e invadente quanto un mostruoso parassita.

Nel romanzo racconti senza filtri la tua storia di tossicomane. Come nasce una dipendenza?

È una domanda difficile. A me è successo in seguito a una serie di avvenimenti spiacevoli sia a livello professionale che sentimentale, e mi sono ritrovato a perdere la voglia di lottare. La vita era diventata stressante e opprimente, ero scontento, ho lasciato andare tutto. Prima facevo un uso saltuario di cocaina: potevo farne a meno per giorni. Poi però, quando è diventata il mio rifugio da un’esistenza frustrante, non sono più riuscito a staccarmene.

Che sensazione dà la cocaina?

La cocaina è subdola. Inizialmente provoca un senso di euforia, di onnipotenza, i problemi sembrano all’improvviso risolvibili, la mente diventa più lucida. D’altronde è così che funzionano gli eccitanti. Ma quando il consumo diventa regolare le prime sensazioni cambiano, non sono più le stesse o durano sempre meno. Poi arrivano paranoia, ansia, inquietudine perché la realtà, man mano che l’effetto svanisce, torna a farsi più presente di prima. E a quel punto l’unico modo per ricacciarla è farsi un’altra dose.

In ‘Lettera di un super tossicomane’, William Burroughs scrive “si può desiderare la cocaina intensamente, ma non si stabilisce un vero bisogno metabolico. Se non si può avere la cocaina si mangia, si dorme e ci se ne dimentica”. Se l’affermazione è veritiera, dove risiede la dipendenza dalla sostanza?

La dipendenza da cocaina agisce per lo più a livello psicotropo. Il corpo non ne sente la mancanza, anzi, sta meglio perché riprende a dormire e a mangiare. La questione è mentale. In situazioni di forte stress la mente mette in atto un meccanismo di difesa che la porta a ricordare quanto piacere desse l’uso di sostanze. È un autoinganno che siamo noi stessi a generare, anche perché, dopo averle provate, è difficile fare a meno di quelle endorfine rilasciate dalla droga. Io sono riuscito a tirarmene fuori con molto allenamento. La cocaina distrugge prima di tutto l’autostima, arriva un momento in cui ci si convince che senza di lei non si sarà più capaci di fare niente. Il grosso sforzo è invece resistere e tornare ad affrontare le difficoltà con le proprie forze. Quando ho visto che avevo tutte le competenze per cavarmela anche senza quel senso di onnipotenza artificiale ho ricominciato a riacquisire fiducia in me stesso.

Quali sono state le tappe della tua disintossicazione?

Mi sono rivolto a mio padre perché ero sicuro che non avrebbe lasciato correre e avrebbe affrontato la cosa seriamente. Da lì ci siamo rivolti a Pro Juventute e, successivamente, al Centro Ingrado nel Luganese. Sono stato ricoverato un mese e mezzo in ospedale, ma appena uscito ho avuto una ricaduta. Sarei dovuto andare in comunità, ma ho creduto di potercela fare da solo. Al secondo tentativo, invece, mi sono convinto. Era l’unica soluzione plausibile per salvarmi. Non mi piaceva la comunità e detestavo starci, ma sapevo che sarei dovuto resistere perché altre soluzioni efficaci non esistevano. In comunità si ricomincia a vivere partendo da piccoli aspetti della routine giornaliera come cucinare, pulire, dormire e mangiare a orari regolari e stabiliti. Prima vivevo di notte, dormivo tutto il giorno e mangiavo pochissimo.

Moltissimi scrittori, da Baudelaire a Cocteau a Christiane F., hanno trasformato la dipendenza in qualcosa di creativo. Cosa ti ha fatto scoprire la scrittura in rapporto alla tua storia autobiografica?

La scrittura è sempre stata presente nella mia vita. Ho ripreso la penna in mano in ospedale. Ero spaventato, avevo molto tempo a disposizione e molto caos in testa, ho iniziato a lavorare sui miei pensieri cercando di analizzare ciò che mi aveva portato fino a quel punto. Inizialmente il libro aveva più che altro la forma del diario, avevo bisogno di fissare ciò che mi stava accadendo, di capire come sarebbe finita.

Perché hai deciso di raccontare la tua storia? Cosa ci dice il tuo libro e a chi è destinato?

Quando ho saputo che sarei andato in comunità ho iniziato a fare ricerche sul posto, a cercare testimonianze di persone che ci fossero già passate. Non ho trovato niente. Nessuno che ne parlasse. Tutto questo ha alimentato la mia paura, ma mi ha anche spinto a parlarne. Il mio libro si rivolge soprattutto a persone nella mia stessa situazione e alle loro famiglie. Credo che possa essere un valido aiuto per capire quali sono i meccanismi della tossicodipendenza e quali percorsi mettere in pratica per uscirne. C’è una costante che torna in tutte le storie. Bisogna però avere davvero voglia di uscirne, comprendere di aver toccato il fondo e di voler risalire.

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