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Missa Solemnis, alla ricerca di uno stile

Solo dal 1860 circa la frequenza delle sue esecuzioni fu regolare al punto di familiarizzare il pubblico con l’apparenza enigmatica di questa composizione

Warhol’s "Beethoven
(Keystone)
25 marzo 2024
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Pare ancora incredibile che, Beethoven ancora in vita, la sua messa sia stata eseguita solo due volte: nel 1824 a San Pietroburgo per iniziativa del principe Galitzin, e lo stesso anno a Vienna nel medesimo concerto in cui fu presentata per la prima volta la Nona Sinfonia ma dove essa apparì in versione raccorciata, senza il Gloria e il Sanctus-Benedictus.

È inoltre singolare il fatto che per riascoltarla bisognò attendere fino al 1845, circostanza che la accomuna significativamente al destino di un’opera quasi coeva sepolta nel silenzio per altrettanto lungo periodo di tempo, l’Incompiuta di Schubert. Il nome e il mito altisonante di Beethoven presso i romantici, che bene o male erano serviti a non lasciar cadere del tutto nell’oblio le ultime sonate e gli estremi quartetti, nulla o quasi poterono quindi nei confronti di un lavoro che, pur rientrando nella cosiddetta terza maniera del grande compositore, se ne scosta quale unicum dai caratteri precipui. A questo punto, nonostante tutti i tentativi di confutarlo, rimane ancora valido il celebre saggio di Theodor W. Adorno consacrato alla Missa Solemnis con il titolo di “Straniamento di un capolavoro” e che parte appunto dal riconoscimento del suo carattere anomalo nell’àmbito dell’opera beethoveniana. Solo dal 1860 circa la frequenza delle esecuzioni della Missa Solemnis fu regolare al punto di familiarizzare il pubblico con l’apparenza enigmatica di questa composizione. Fu il suo consumo dopo d’allora, più che la sua intrinseca fisionomia, ad accreditarne l’immagine in una di quelle operazioni di “neutralizzazione della cultura” (Adorno) che, dal momento in cui l’opera fu accolta nel pantheon dei capolavori, più che facilitarla ne ostacolarono la comprensione. La constatazione di fondo del filosofo è la sensazione che, se la composizione fosse presentata a un pubblico che ancora non la conoscesse, difficilmente questi sarebbe in grado di individuarne l’autore mancando in essa sufficienti riscontri con il resto della produzione beethoveniana.

È evidente infatti che la chiave linguistica operante nella Missa non è quella del discorso dialettico tematico, né quella della variazione integrale che caratterizza le estreme opere del maestro con cui essa condivide unicamente l’approfondimento dei valori contrappuntistici. Se l’arditezza e la novità delle tarde composizioni miravano alla ricerca di un’identità di stile, pur nella coscienza dell’allontanamento dai valori messi a fuoco nelle sue prime composizioni, l’operazione in atto nella Missa, altrettanto audace, porta piuttosto al risultato di un’assenza di stile. La risposta che da certe parti è stata data a tale singolare congiuntura è quella che spiega la rinuncia di Beethoven a imprimervi il suo potente marchio volontaristico con l’inevitabile riconoscimento della forza della tradizione agente in profondità nella pratica musicale liturgica, da cui il prevalere di un astratto ordine formale sulle possibilità di incanalarvi libero e possente empito espressivo. Gli evidenti arcaismi di questa particolare scrittura beethoveniana sarebbero allora da interpretare come una sorta di ossequio alla consuetudine, capace ancora di dettare le sue antiche regole.

In realtà questo è un solo livello del problema, accettabile in quanto confermato dalla costanza con cui la meditazione religiosa in musica da secoli ormai si imponeva nei termini di una ricerca dei valori fondamentali nel rapporto di falsa identità tra aspetto antico e valore eterno, operativa fin dal momento in cui nel Medioevo, attraverso la tecnica del cantus firmus (cioè della voce impassibilmente portatrice del canto gregoriano nella complessità sempre più pronunciata delle trame vocali), si veniva a stabilire nella composizione una prospettiva di ineliminabile confronto con un dato del passato irriducibile nel tempo. Non solo tale tecnica fu tramandata fino ad oggi ma, dal Seicento in poi, in àmbito ecclesiastico venne a sedimentarsi un secondo livello di cristallizzazione attraverso l’omologazione della polifonia palestriniana assurta a stile “ufficiale” della chiesa romana. L’arcaismo di Beethoven non si lascia tuttavia riconoscere su questa linea in una semplice operazione di continuità stilistica con l’immediato passato. È inevitabile ad esempio il confronto con le grandi messe haydniane che costituiscono l’immediato precedente della Missa Solemnis e che rappresentano probabilmente il primo (e ultimo) esempio di sintesi tra antica pratica contrappuntistica e i moderni princìpi sinfonico-sonatistico che però Beethoven si rifiuta di perfezionare lasciandosi tentare dall’indagine dell’arcaico che lo induce addirittura a soluzioni apparentemente al di fuori del tempo.

È invece evidente che con Beethoven il processo è giunto a un’incrinatura: ciò che per Haydn non era in fondo altro che uno sviluppo della tradizione (a partire dalla messa cattolica austriaca in cui non era mai venuto meno il senso dei valori contrappuntistici), per Beethoven diventa già ricerca della tradizione nell’àmbito di un’operazione mentale, più che collaudo sul ceppo di una pratica corrente. Proprio l’impegno del rispetto delle regole liturgiche tradisce in questo capolavoro la difficoltà di individuarvi il grado di funzionalità, al limite assicurato solo dalla monumentalità capace di alimentare la stupefazione che rimane il compito della musica religiosa di tutti i tempi. Nella scrittura al contrario assistiamo a una definizione di stile condotta per via astratta, al di là di ogni possibile verifica d’ascolto, in base a ipotesi di lavoro la cui fragilità si riflette appunto nell’assenza di stile di cui si diceva. In questo senso la Missa Solemnis segna una tappa fondamentale della coscienza moderna: la consapevolezza di dover rimediare al ponte rotto con le funzioni del passato in un’azione di ripristino di collegamenti con l’eredità per via concettuale, il cui risultato tuttavia, anziché approdare a una restaurazione, rivela il fondamento esclusivamente individualistico del tentativo definitorio e il conseguente venir meno del rapporto di conformità con l’utente in una situazione che del compito liturgico non può che tramandare l’apparenza. In questo senso la Missa Solemnis non va solo considerata come lo spartiacque della musica religiosa ottocentesca, ma (e probabilmente più di altri traguardi beethoveniani ancor più concettuali) come la radice della profonda crisi espressiva che in modo sempre più radicale ha invaso la musica moderna.

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