Lunedì 23 ottobre allo Stelio Molo, LuganoMusica e Osi, con Rsi, festeggiano il compositore ticinese e i suoi ottant'anni con un concerto dedicato
[...] si conoscerà lo Specolativo esser differente dal Prattico, che quello sempre piglia il nome dalla scienza, et vien detto Musico. Et questo non dalla scienza, ma dall’operare, come dal Comporre è detto Compositore; [...] onde volendo sapere quello che sia l’uno et l’altro diremo Musico esser colui, che nella Musica è perito, et ha facultà di giudicare, non per il suono: ma per ragione quello, che in tale scienza si contiene. Il quale se alle cose appartinenti alla prattica darà opera, farà la sua scienza più perfetta et Musico perfetto si potrà chiamare. (Gioseffo Zarlino, Le Istitutioni harmoniche, Venezia 1558)
Se la funzione del critico nei confronti della musica del passato classico e romantico è chiaramente definita come compito sovrastrutturale svolto al di là della naturalezza del sentire e della spontaneità del fare artistico, nella dimensione del moderno essa è venuta a rimodularsi di fronte all’assunzione di responsabilità del compositore in quanto teorico di sé stesso.
Il moderno si qualifica al livello di tale coscienza autocritica che ha modificato nel tempo la posizione dell’artista. Da questo punto di vista il moderno si è manifestato in quanto disvelatore della dimensione speculativa della musica, rimasta sottotraccia nei secoli recenti ma intrinseca alla sua propria natura, come è dimostrato dal fondamento a cui si riconduceva nel lontano Medio Evo. A quell’epoca infatti, diversamente dall’espressione letteraria compresa nel trivium (grammatica, retorica, dialettica), la musica faceva parte del quadrivium (con aritmetica, geometria, astronomia). Fra le “arti liberali” essa era cioè posta non al livello dei generi deputati a governare le relazioni dirette fra gli uomini attraverso l’immanenza, bensì fra quelli che la trascendevano allo stadio delle astrazioni riflettenti la superiore meccanica dell’universo.
Se dal Rinascimento in poi la musica è evoluta in base al progressivo imporsi della centralità dell’individuo in termini che hanno rovesciato il rapporto, a vari gradi è rimasta più o meno latente la sua capacità di articolarsi al di là delle urgenze soggettive.
Questa consapevolezza è particolarmente testimoniata dall’esperienza di Francesco Hoch. Costante in lui è sempre stato l’interrogarsi sulla logica celata al di là del suono che ne è governato oltre le contingenze, in un rapporto che rimanda con coerenza ai principî formanti, su cui vigila la coscienza della realtà della musica percepita al di là del livello espressivo, estesa allo stadio in cui essa si ricollega all’antica e originale definizione speculativa dell’occidentale arte dei suoni. La determinazione programmatica e la costanza con cui il compositore ha percorso le varie tappe della sua parabola è il risultato della certezza derivante da questa posizione. L’arco creativo che egli ha percorso attraverso distinte fasi l’ha portato a uno stadio identificato nell’esaurimento delle motivazioni dello stesso far musica, comportando a rigori la prospettiva della cessazione del comporre. Orbene, al di là del significato metaforico di tale traguardo, la via oltretombale che egli ha indicato nel concetto di “opera postuma”, nei termini di una decantazione altrettanto metaforica, non va letta come adesione alle tentazioni del riflusso manifeste nelle soluzioni restaurative giunte a dominare la fase del cosiddetto postmoderno, bensì nel contesto di una visione quasi biologica della musica dove nulla si distrugge ma tutto si trasforma, secondo il principio che ha guidato Schönberg nella lezione affidata all’Harmonielehre, in cui leggiamo:
Egli [l’allievo] deve sapere che le condizioni della dissoluzione del sistema sono contenute in quelle stesse condizioni che lo determinano, e che in tutto ciò che vive esiste ciò che modifica, sviluppa e distrugge la vita. La vita e la morte sono contenute nello stesso seme, e nel mezzo sta solo il tempo, cioè nulla di essenziale ma solo una misura che finisce col colmarsi. Da questo esempio deve imparare ciò che è eterno: il mutamento; e cosa è temporale: l’esistenza.
Il maestro viennese è quindi l’ombra che si aggira dietro l’esperienza del nostro, non solo come capostipite di quel radicalismo estetico testimoniato dalla dodecafonia, che ha costituito il discrimine principale su cui si è profilata l’avanguardia musicale del Novecento nel cui solco Hoch si riconosce, ma anche come guida metodologica al di là della scelta linguistica, come musicus quindi prima che cantor, come artista in permanente e cosciente relazione con il divenire, con la musica intesa come traduzione in suono di un ordinamento superiore destinato a incorporarsi nel mondo fisico ma appartenente a una sfera data oltre la dimensione del sensibile.
In questo senso la sua parabola evolutiva si iscrive nella dimensione esistenziale nei termini in cui vi si riconosce anche lo stadio terminale dello “Spätstil”, che Theodor W. Adorno identificò nell’ultimo Beethoven, nei termini di una decantazione, del risultato pervenuto all’opera straniata: “Lo stile tardo è ciò che accade se l’arte non rinuncia ai suoi diritti in favore della realtà [...], lo stile tardo è dentro il presente, ma ne è stranamente separato”. Il legame che Hoch stabilisce con la propria biografia, nel rendere conto delle tappe in cui il suo percorso si sviluppa, non va allora letto come subordinazione all’esistenzialità, alla temporalità. È invece l’esatto contrario: il cammino percorso nel tempo incide sulla coscienza nel senso di produrre una maturazione tendente a considerare l’opera sempre più sciolta dalla contingenza, a spingerla al confronto con i dati fondamentali della sua natura in una forma di sospensione del tempo, possibile non come punto di partenza, bensì come traguardo, punto d’arrivo di un processo che, per liberarsi del vissuto, deve averlo attraversato e consumato. L’opera tarda identificata nell’ultimo Beethoven è vista da Edward W. Said (sulla scorta di Maynard Solomon) come momento in cui l’artista, pienamente padrone dei suoi mezzi, smette di comunicare con l’ordine sociale prestabilito di cui fa parte e stringe con esso una relazione contraddittoria e alienata. Le sue opere tarde costituiscono una sorta di esilio.
È una constatazione che ci può guidare nella decifrazione del cammino che Hoch ha percorso, nell’esplorazione degli elementi originari dell’arte musicale, constatabile nella frequenza con cui nel suo catalogo compaiono composizioni disadorne, per una singola voce o un singolo strumento (o piccoli complessi di strumenti), in miniature che, come le bagatelle beethoveniane, nella loro nudità tendono a sottrarsi sia alla sontuosità sonora, sia alla misura richiesta per essere adottate nel circuito consuetudinario dell’offerta musicale. Assorbito nella dimensione dell’interiorità, l’intensificarsi di tale scelta compositiva in tempi recenti, nella trasparenza di un tessuto timbrico che si fa sempre più diafano e di forme miranti all’essenziale, rivela una condizione viepiù soggetta alla forza d’attrazione della trascendenza.