L'eleganza poetica di Anna Felder, le storie minime di Aurelio Buletti e due opere sorprendenti (un ricordo)
La morte ha preso di mira i poeti di casa, in questo mese di novembre. Prima Anna Felder, che è stata narratrice di grande eleganza poetica, poi Aurelio Buletti, poeta che amava raccontare storie minime.
Anna, l'avevo recensita su ‘Cooperazione’, quando questo settimanale era ancora molto attento alla letteratura. Prendendo in considerazione la Disdetta, che mi aveva incantato, avevo messo in rilievo, in quella lontana nota del 1974, lo stile del romanzo, nel quale la quotidianità appariva illuminata e trasfigurata dagli occhi di un gatto, la dimensione poliedrica nella quale la scrittrice racchiudeva una sfera magica, la grazia di una prosa – nutrita di giochi nello spazio e nel tempo, di metafore, di ambiguità – che era piaciuta a Italo Calvino. Grazia luminosa che era anche di Anna, del suo modo di fare, dei suoi occhi azzurri.
Aurelio, invece, l'avevo presentato a Giubiasco, nel giugno del 1979. Ho ritrovato gli articoli di giornale che si riferiscono a quella presentazione. E fa un certo effetto, oggi, tornare con la mente a quel tempo, quando ancora si discuteva tra scrittori. Aurelio ed io facevamo parte del ‘Gruppo di Olten’, Associazione di scrittori di sinistra (io scherzosamente lo chiamavo ‘Gruppo di Holden’, pensando all'eroe di Salinger) e credevamo nella possibilità della letteratura di avere una funzione pubblica.
Avevo parlato, in quella presentazione, della sua seconda raccolta, Né al primo né al più bello, dove trovavo uno scavo appassionato, una ricerca del senso più pieno delle parole: che è poi una delle funzioni più importanti della poesia. La forma epigrammatica, propria di quei versi, non rappresenta certo una forma di facilità, come ricordava il giornalista del ‘Corriere del Ticino’ scrivendo la cronaca di quell'incontro, organizzato dalla libreria Quarta: durante il quale Aurelio aveva detto che in poesia ciò che limita è ciò che aiuta: parole che ci fanno ben comprendere la sua poetica della brevità.
Se oggi torno a chiedermi perché quei libri mi piacevano, La disdetta da una parte, Né al primo né al più bello dall'altra, rispondo dentro di me: perché mi sorprendevano. L'effetto che hanno su di noi certe letture dipendono anche dall'età che abbiamo, dal nostro stato d'animo, dalla capacità di lasciarci sorprendere: un po’ come ci sorprende una camelia che fiorisce d'inverno, o il sole al tramonto sopra i colli del Mendrisiotto. Assumere il punto di vista di un gatto, come fa la nostra scrittrice, non può non meravigliare. E di quel libro, pubblicato da Einaudi, mi piaceva anche la sovraccoperta: quel gatto che ci guarda con un occhio giallo! In Buletti mi sorprendeva, invece una poesia come: "Non sono / il mastino ringhioso di un borghese perbene / né il lieto maiale ignaro della mazza: / sono la semilibera gallina / di una vecchia sordastra, / faccio il verso talvolta / con piccolo spavento dei passanti". Che credo voglia dire: il poeta non deve, né suonare il piffero per la rivoluzione, né essere "amanuense del potere", ma solo essere sé stesso.
Di questi versi, faceva notare Flavio Medici su ‘Azione’, si ammira la densità: "Bastano poche s e poche r per suggerire la ringhiosità del mastino, e due sole i in arsi per richiamare la malizia ben dissimulata della gallina". Una poesia antielegiaca, dalla quale traspare l'impegno politico di Aurelio, che non diventa mai moralismo provocatorio.
Dicevo di quegli anni giovanili, in cui ci si poneva domande come: c’è un futuro per la poesia? Si può far uscire la poesia dal ghetto degli intellettuali? I poeti non dovrebbero sostituire, sui muri, i versi agli slogan scritti nottetempo da mani anonime? La poesia ha da essere musica da camera, o dev'essere declamata in piazza?
Queste domande, di moda negli anni Settanta del secolo scorso, oggi non ce le facciamo quasi più. Forse perché: cos’è, raccontare una storia, se non danzare con le parole e cos’è scrivere poesie se non sognare ragionando?