laR+ L’intervista

Marco Baliani, gli ‘Opposti flussi’ di un uomo di lago

Alcuni punti fermi e l’improvvisazione a legare. Al centro, la voce dell'attore e drammaturgo nativo di Verbania, il 19 novembre al San Materno di Ascona

Marco Baliani
17 novembre 2023
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«Immagini di avere una mappa sopra la quale sono segnati alcuni punti che il percorso deve includere. Il passaggio da questi punti, che sono poi i racconti che compongono spettacolo, è assai libero: ci si può perdere, divagare, errare un poco». La divagazione è improvvisazione che «sì, si può definire jazzistica», dice Marco Baliani, attore, drammaturgo, regista teatrale e scrittore che domenica alle 17 al Teatro San Materno di Ascona porta il suo ‘Opposti Flussi’, l’insieme dei quei punti fermi e la parte improvvisata».

Con al centro la voce, la sua, al San Materno vanno in scena quattro opposizioni: sogno-realtà, esseri umani-esseri animali, oralità-scrittura, accoglienza-rifiuto, con excursus potenzialmente prodotti «dal rapporto con lo spazio, con il posto, l’ora, le presenze, le storie che possono nascere in concomitanza con i miei temi».

Baliani ha fatto la storia del teatro di narrazione con ‘Kohlhaas’, aprendone la via nel 1989 e dosando con misura classici e spettacoli di impegno civile. La sua regia si è applicata in più occasioni al mondo operistico; al cinema lo hanno voluto Francesca Archibugi, Roberto Andò, Saverio Costanzo, Cristina Comincini e Mario Martone. Nel 2021, per Bompiani, è uscito l’ultimo suo romanzo, ‘La pietra oscura’. Partendo da ‘Opposti Flussi’, concepito nel 2020, ci facciamo accompagnare da Baliani tra i titoli di un’intera carriera.

Marco Baliani: quanto conterà il Monte Verità nelle sue divagazioni?

Non potrò non tenerne conto, ma basterebbe già il lago: sono nato a Verbania, sono lacustre come il pubblico. Quanto al Monte Verità, si potrà pure non credere alla new age, come nel mio caso, ma non si può dire che non sia un posto magico, un luogo di storie, di filosofi e antroposofi, un posto energetico molto particolare. Il fatto che tutte quelle persone lo frequentassero è una realtà, per quanto essa sfugga alla nostra conoscenza scientifica. È un tema, quello della conoscenza scientifica, di cui parlerò ad Ascona proprio perché la fisica quantistica ci dice che l’80 percento di quel che ci circonda si chiama ‘materia oscura’. Di certo, sul Monte Verità ve ne sarà una concentrazione che non abbiamo ancora misurato.

Divagazioni. La sua carriera ne concede poche allo spettacolo tout court, anche negli episodi cinematografici. Questo rigore, il rispetto degli equilibri, l’attenzione a forme e misure del suo andare in scena ha forse a che fare con i suoi studi d’architettura?

Poco, posso dire. Il mio percorso alla facoltà di Architettura si svolge nel periodo delle bufere degli anni ’70. In verità, metà dei miei esami furono sociologia, antropologia, studio delle religioni, tutto tranne che l’architettura, che però mi ha permesso di esplorare il tema dello spazio. Il teatro è fatto anche di drammaturgia spaziale, perché un palco costruito o posizionato in un certo modo o in un certo luogo genera un tipo di percezione diversa.

‘Il teatro l’ho imparato per strada’, ha dichiarato.

Sì, per strada e col naso da clown, per un paio d’anni. Nella prima parte della mia carriera ho fatto anche tanto teatro per bambini e per ragazzi, un’esperienza che mi ha insegnato moltissimo sull’arte del racconto e del narrare.

In una ipotetica nuvola di parole che la riguardino, ‘insegnamento’ e ‘laboratorio’ sarebbero scritte molto in grande. Necessità personale? Missione?

Una necessità personale innanzitutto, il laboratorio mi consente ogni volta di esplorare nuove cose e di capire altro su di me, ma anche sulle persone con cui lavoro e sul teatro stesso. È una fonte di arricchimento e mai uno sforzo. Più che una missione, l’insegnamento lo chiamerei un talento pedagogico, datomi forse da mia madre, maestra elementare, che deve avermi trasmesso la capacità di trasmettere.

I partigiani in ‘Sole nero’, il caso Moro in ‘Corpo di Stato’, due titoli che si è soliti collocare in ambiti di cosiddetto ‘teatro civile’, classificazione che lei non ama. ‘Il mio è teatro che inquieta e non teatro che indigna’, sono parole sue…

Il teatro civile spiega come sono andate le cose, mette in ordine la storia, mostra i conflitti per come si sono svolti e distingue le vittime dai malvagi ed è un teatro che a me interessa poco. Il pubblico esce dalla sala indignato perché ha capito chi sono i malvagi, ma allo stesso tempo si autoassolve per il solo fatto di essere a teatro e per la certezza di non stare dalla parte del male. È un po’ poco. Preferisco invece che il pubblico, alla fine dello spettacolo, continui a porsi domande alle quali non trova risposte. Amo quel tipo d’inquietudine e di spavento e amo raccontare di persone anche piccole, che non devono forzatamente appartenere alla storia con la S maiuscola, gente il cui vissuto possa toccare l’animo umano. Se poi riesco a estendere il discorso alla grande storia, bene, ma è la lezione di Calvino in ‘Nidi di ragno’: si può mettere in scena un ragazzino che attraversa il periodo della Resistenza e parlare della Resistenza stessa con i suoi occhi. E il conflitto è il suo e non quello degli adulti.

‘I porti del Mediterraneo’ e ‘Migranti’ negli anni 90, ‘Human’ nel 2016. Le migrazioni tornano fino a ‘Opposti Flussi’, se l’accoglienza-rifiuto dell’opposizione è da intendersi in questo senso...

Sì, è l’opposizione che parla di ciò che stiamo vivendo. Anche in questo caso, non è la cosa in sé ma come la si racconta. Continuo a scegliere uno sguardo diverso dal solito, borderline, non coerente con la narrazione ufficiale, un punto di vista che, credo, renda tutto più forte, spietato, sincero e inquietante. Torno a ‘Corpo di Stato’ su Moro per dire che nemmeno in quel caso si trattò di una cronaca, ma del racconto di cosa accadde a me e ai miei amici e compagni di percorso durante i 55 giorni della prigionia dello statista, pensando di potermi avvicinare di più al perché dell’accaduto e della sua uccisione.

L’opposizione esseri umani-esseri animali quasi si azzera in ‘Una notte sbagliata’, suo spettacolo de 2019 sulla violenza cieca…

La violenza su un inerme, vorrei specificare. Ho provato a dare una risposta al perché ci si scateni sempre contro chi porta un handicap, che si tratti del barbone, della pelle nera, di uno zoppo o di un bipolare, come in questo caso, e perché il meccanismo violento del capro espiatorio scatti sempre nei confronti di chi non è visto come normale. Mi hanno chiesto se in quel caso mi fossi ispirato a Stefano Cucchi e anche se non l’ho fatto, tutto c’entra. Nemmeno ‘Una notte sbagliata’ è il racconto di un fatto di cronaca, ma il susseguirsi di più voci che s’intersecano: sono colui che morirà, il bipolare, ma anche il cane, e sono anche i quattro poliziotti che quella sera si sfogano su di lui perché non ne possono più del lavoro che fanno; sono il dottore che ha la vittima in cura, sono colui che accompagna le persone in visita all’obitorio. Non è un racconto lineare, è una miscellanea di punti di vista diversi che parlano tutti della stessa catastrofe, che è poi un evento semplicissimo: un uomo porta fuori il cane di notte nel posto sbagliato, nel momento sbagliato.

Insieme ai classici, ma soprattutto in mezzo a tanto ‘terreno’, come si collocano infine i suoi lavori su San Francesco?

Accetto il fatto che lo chiamino Santo, ma per me è un uomo e si chiama Francesco. L’assoluta semplicità della sua ricerca spirituale ne fa un antesignano di tutto il discutere sulla natura, sull’essere umano, sulla morte. È figura comunque imprescindibile se ci si vuole confrontare davvero con se stessi, che si sia credenti oppure no. Pur togliendo ogni riferimento all’agiografia fatta sulla sua figura, a partire dalle stimmate, insieme a Roberto Anglisani sono stato chiamato più volte nei seminari francescani per via dell’approcciarci al santo in quel modo. Il teatro può fare cose meravigliose in questo senso, può sempre porsi in posizione inaspettata rispetto alle cose. È assai più libero del cinema, che necessita della verosimiglianza, della coerenza, della consequenzialità, della causa-effetto, dovendo illustrare la realtà. Il teatro non ne ha alcun bisogno.

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