Il ricordo

In memoria di Alberto Flammer, fotografo

Un lavoratore, rigoroso e curioso. La curiosità di uomo, di un artista che sapeva guardare oltre l’apparenza

‘Dal libro dei morti dell’antico Egitto’
14 novembre 2023
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Negli occhi le immagini delle piramidi di Cheope o del tempio di Atshepsut, in calce le parole: “Io sono intatto come mio padre Osiride-Khepra….”

Nelle orecchie le parole per dire della difficoltà che aveva incontrato nello scattare quelle foto in un luogo formicolante di turisti da mattina a sera. E la luce, così tagliente da scompaginargli i piani. Ma Alberto Flammer era un perfezionista e con tenacia e pazienza aveva aspettato il momento giusto. E il momento giusto lo aveva trovato. La serie di fotografie ‘Dal libro dei morti dell’antico Egitto’, con quell’inusuale accoppiamento fra parole e immagine, era stata oggetto di una mostra al Kunsthaus di Zurigo nel 1989 ma era anche stata esposta al Museo cantonale d’arte di Lugano, oggi Masi, della cui collezione essa fa parte. Scatti che colgono particolari, ritagli di luce, ombre, molte ombre sotto forma di nuvole e oscurità che quei luoghi sacri custodiscono nel mistero dei millenni. Queste, mai l’immagine nota, cercava Alberto Flammer; con la sua macchina fotografica scandagliava luoghi e persone quasi a volerne cogliere l’essenza. Pazienza e precisione certosina erano la sua cifra, dalla pubblicazione di ‘Occhi sul Ticino’ (1972) e di ‘Pane e Coltello’, con Piero Bianconi (1975), il libro che lo ha rivelato come promessa della fotografia svizzera.

La pazienza l’aveva imparata da suo padre, nella bottega di fotografia di fronte alla stazione di Locarno. E con quella le tecniche di base dello sviluppo e della stampa, un sapere alchemico, reso obsoleto dalle nuove tecniche digitali ma fondamentale nel recupero delle foto storiche. A lui, maestro del bianco e nero, la Fondazione Roberto Donetta di Corzoneso si era rivolta alla fine degli Anni 90 per riportare alla luce le lastre del fotografo-venditore di sementi morto in povertà nel 1932. Le prime novanta foto di quella lunga serie, oggi custodite alla Fondazione Donetta, nella casa rotonda di Casserio, hanno fatto il giro di musei e gallerie, dal Museo cantonale di Lugano alla Fotostiftung di Winterthur.

Vicino all’ambiente artistico e letterario del Ticino, legato al suo territorio ma con uno sguardo aperto sul mondo dell’arte, aveva collaborato nell’allestimento di archivi e cataloghi d’arte con Piero Bianconi, Flavio Paolucci e Ben Nicholson.

Sguardi

Se Alberto Flammer si è fatto un nome come artigiano fotografando soprattutto l’architettura ticinese degli ultimi quarant’anni, ricca e notevole è anche la sua produzione personale. Il suo obbiettivo trasfigurava oggetti e corpi, ne rivelava l’alterità. Tronchi d’albero, fibre vegetali, animali imbalsamati o la schiena di una contorsionista svelano allo sguardo altre possibilità di significato. Uno sguardo anche ironico, il suo, che si rivela nel gusto di ribaltare i luoghi comuni e negli abbinamenti audaci, come nella serie ‘Viaggio in Vallemaggia’ (1989) dove uno Zeppelin sorvola il paesaggio valmaggese. Perfino le lastre dei raggi X, cui si era sottoposto dopo un ictus che lo aveva colpito, erano diventate campo di indagine e di scoperta per una serie di fotografie.

“Sono stato miracolato”, diceva col suo umorismo caustico, dopo quell’episodio che fortunatamente non aveva intaccato la sua capacità e voglia di lavorare.

Perché Alberto Flammer è stato soprattutto un grande lavoratore. Lo è stato fino al giorno della sua morte: sempre all’opera su qualche progetto, senza fretta, evitando scorciatoie di comodo, attento ai minimi dettagli. Rigoroso e anche molto critico, verso se stesso e verso gli altri: chi lo ha conosciuto certo ricorda i suoi giudizi sferzanti, parole che lasciavano poco spazio a pareri diversi dal suo. Ma era anche capace di apprezzamento sincero che si trasformava poi in forme di incoraggiamento e di sostegno. Il suo sguardo critico era riconosciuto a livello nazionale: dal 1989 al 2000 aveva fatto parte della Commissione federale per le arti applicate.

“Il suo è un bianco e nero da grande professionista” dicono molti giovani fotografi che lo hanno preso a modello. E ai grandi maestri Flammer guardava con profondità, centinaia sono i libri che lo hanno accompagnato: di fotografia, certo, ma anche di arti figurative, letteratura o culture lontane. La sua era la curiosità di un uomo e di un artista che sapeva guardare oltre l’apparenza.

Mi piace immaginarlo nell’aldilà, lo sguardo catturato da qualcosa che lo intriga.

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