LA RECENSIONE

Giorgio Orelli: pigliare gli occhi per aver la mente

Casagrande pubblica ‘Struttura luce poesia’, gli scritti sull'arte del grande poeta ticinese, con l'attenta cura di Ariele Morinini

"...dunque l’arte non è morta"
(@Ti-Press)
11 novembre 2023
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“Si tratta, fra una palude e l’altra, di resistere”: accostandosi, col capo chino e l’umiltà dei frati, alle arti figurative, Giorgio Orelli sembra tracciare un ponte tra un’idea dell’attività letteraria (un estenuarsi in piccoli, amorosi gesti, nella convinzione che una cosa fatta bene faccia bene) e lo sforzo di pittori, scultori, incisori di ingentilire il mondo con frammenti di bellezza. Gli scritti sull’arte, raccolti con intelligenza e sensibilità da Ariele Morinini in ‘Struttura luce poesia’ (ed. Casagrande), testimoniano un’attenzione partecipe, interessata tanto all’esito artistico quanto alla spinta interiore, a quel poco o tanto di amore che serve per mettere la propria anima a nudo in un’opera.

Astrazioni, colori e inquietudini

Evitando di congelarsi in noiosi tecnicismi che non sono il suo pane, Orelli non sovrappone il suo sguardo a ciò che osserva: è rimasto lo studente su una terrazza contro prati in pendio della lirica ‘Ginocchi’, pronto ad arrossire dopo avere pronunciato una dichiarazione netta. Eppure, se la guardiamo da una distanza ragionevole, la somma di questi scritti d’occasione, dedicati ad artisti ticinesi non molto conosciuti oltre la Svizzera italiana, finisce per comporre, come in un mosaico, proprio il volto di Giorgio Orelli.

Pensiamo a quanto scrive a proposito di Alberto Salvioni: “una ricerca d’essenzialità espressiva senza forzature intellettualistiche, nell’ambito di una visione dell’esistenza i cui motivi appaiono abbastanza scarnificati”, o ancora: “s’inscrive naturalmente in quella brigata (non troppo esigua, per fortuna) di artisti figurativi quel tanto che basta perché la rappresentazione coincida con un’immagine astratta (nel senso inerente soprattutto a un uso particolare della memoria)”. O a una riflessione stimolata dalle incisioni di Ubaldo Monico, di cui invita, quasi fornendo una chiave per l’interpretazione dei propri versi, a valutare con attenzione il rapporto tra astrazione ritmica, timbro e semanticità. È come se Orelli ci spiegasse cosa intenda per resistere, come se ritrovasse, rese con strumenti diversi, le sue stesse inquietudini e la medesima spinta a esprimerle.

Parrucconi e borghesi

Si tratta, non dimentichiamolo, di un poeta che non disdegna rapide pennellate di colore, improvvisi fasci di luce a illuminare un quieto e familiare bestiario, in cui sfilano farfalle, merli, salamandre, capre che si guardano lunatiche e pietose, insetti che si accendono di barbagli azzurri, martore con la gola d’arancia. Un altro elemento rivelatore è la perplessità su una tonitruante affermazione dell’altrimenti mite Emanuele Severino, secondo cui, per misteriose ragioni, il passaggio dal figurativo all’astratto sarebbe il corrispettivo del passaggio dallo stato totalitario alla democrazia: “Che sia uno di quei pensieri pensati per assestare fama duratura?”.

Il fastidio per le pose e la sentenziosità dei parrucconi va inevitabilmente di pari passo con la critica a “quella acquiescenza, quella mancanza di criteri rigorosi di scelta che sono l’indizio più vistoso dello spirito provinciale”: una scarsità di buon gusto, secondo Orelli abbastanza diffusa alle nostre latitudini, da spingerlo a spernacchiare, anche qui con veloci tocchi, la prosopopea e l’incompetenza degli elegantissimi sdentati a cui l’Altissimo regala un’ingiusta sovrabbondanza di pane: “siccome poi ci fu qualcuno (uno di quelli che anche gli scampati dalle vere guerre chiamano una persona degna, e perfino, come ho sentito dire una volta da due operai genovesi, una degna persona), il quale con evangelico disinteresse promosse intorno al nostro artista (Ubaldo Monico, ndr) una vasta simpatia tra i borghesi, accadde che almeno una silografia fu venduta”.

Con queste premesse, è naturale applicare a Giorgio Orelli anche le osservazioni sull’omaggio di Angelo Casè al pittore Bruno Nizzola, “un artista tanto più valido e moderno quanto più radicato con le sue immagini, con la sostanza delle sue immagini, nella condizione e nella sorte dell’uomo”.

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