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Cose viste a Zurigo

Pensieri e parole dal Landesmuseum, dove è in corso la mostra ‘La Svizzera, paese di lingue’, fino al Kunsthaus, sede di quella su Käthe Kollwitz

Luci e ombra (quella del Landesmuseum)
(Keystone)
16 novembre 2023
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Zurigo è una città ricchissima. Ma che ci fa quel bambinetto biondo che strofina un forno con uno straccio, come fosse una donna delle pulizie, dietro il bancone di uno degli hotel più eleganti della Kirchgasse? Poco più su vedo una vetrina sperlusenta, attraverso la quale si possono contemplare prodotti provenienti da ogni parte del globo. Sopra la vetrina, un’insegna a caratteri giganteschi: SCHWARZENBACH. Nome tristemente evocativo: chi non ricorda gli anni in cui avere un’abitazione decente era impossibile per uno stagionale? Gli operai, era meglio chiuderli in baracche. A emarginare i poveri era proprio la destra xenofoba, che parlava di “battaglia contro l’inforestierimento”; destra oggi rappresentata dal difensore dei valori svizzeri Marco Chiesa, che ride raggiante a ogni angolo di strada. Ma non si capisce cosa ci sia da ridere se i democentristi, di cui egli è presidente nazionale, in passato hanno denigrato i frontalieri paragonandoli a pecore nere, topi, vermi e oggi osteggiano i nuovi migranti, anche i minorenni che giungono da noi non accompagnati.

* * *

Zurigo è una città plurilingue. Al Landesmuseum, dov’è in corso la mostra ‘La Svizzera, paese di lingue’, nei vari filmati si sentono parlare: un kosovaro, uno scrittore iracheno, un grigionese romanciofono – si può dire? –, una canadese che vive da noi, un’artista svizzero-tedesca, un ragazzo portoghese che suona anche la fisarmonica, uno dell’Eritrea che sa otto lingue e pure una ragazza di Locarno che fa l’elogio del dialetto, affermando addirittura che non si può diffidare di una persona dialettofona; e probabilmente ho dimenticato qualcuno. Ma non dimentico che i due terzi degli svizzeri parlano più di una lingua. Una mostra istruttiva e divertente: due qualità non facili da trovar combinate in un museo.

In mostra vedo tra l’altro, esposti sotto bacheca, gli ‘Statuti della castellanza di Sonvico’ del 1473, scritti in lingua volgare. E posso ascoltare la evocativa poesia di Alina Borioli, in dialetto di Ambrì, ‘Ava Giuana’. Posso scoprire un esemplare della ‘Grammatica inferiore della lingua italiana’ di Stefano Franscini, stampata a Milano nel 1821. Prendo conoscenza di come si dice “lucertola” nelle nostre varie parlate dialettali. E sento, ahimè!, ‘La montanara’ cantata dalla tifoseria dell’Ambrì-Piotta; senz’altro preferisco riascoltare ‘Non ho l’età’ di Gigliola Cinquetti, o lo stralcio della trasmissione ‘Per i lavoratori italiani in Svizzera’, dell’8 giugno 1963, quand’io ero giovane e pieno di speranze.

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Al Kunsthaus, altra musica. La mostra su Käthe Kollwitz, nella nuova ala del museo creata dall’architetto britannico David Chipperfield, è in stretta consonanza con l’attualità. Dialogando con l’artista concettuale Mona Hatoum, la Kollwitz ci propone, con appassionata e ferma severità, le sue ossessioni: specialmente la guerra e la morte. Ossessioni che sono anche dei nostri giorni.

Di lei, che in una nota di diario si dice “atterrita e sconvolta da tutto l’odio che c’è nel mondo”, vengono presentate parecchie delle opere più strazianti sul cupo tema della morte – lei stessa aveva perso un figlio, caduto nella guerra del ’14 – e sul tema scottante della denuncia. Vediamo, tra l’altro, alcune incisioni sui tessitori in rivolta alla fine dell’Ottocento, ispirate a un’opera di Gerhart Hauptmann, la tragica rivolta dei contadini tedeschi d’inizio Cinquecento e la imperante miseria sociale.

Il visitatore non può dimenticare le immagini della donna che stringe vanamente a sé il corpo del figlio senza più vita o il ‘sottouomo’ che trascina un aratro di legno o l’operaia con lo scialle blu. E specialmente non può non chiedersi, il visitatore sensibile: perché l’uomo continua a uccidere? Il manifesto del 1924, con la donna proletaria che urla “Nie wieder Krieg” e alza al cielo tre dita con la destra e con la sinistra si mette la mano al cuore, dovrebbe essere infitto nella coscienza di tutta l’umanità.

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