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Mi chiamo Ahmed e sono nato a Mogadiscio

Pubblichiamo un estratto dal primo capitolo di ‘Oggi non muoio’, libro di Matteo Fraschini Koffi e Mohamed A. Barrow, pubblicato da Libraccio Editore

Forse il mio inconscio ha preferito dimenticare il fatto di essersi formato, fin dai primi giorni di vita, in un Paese in guerra
(Keystone)

Ho pochi ricordi dell’infanzia, non so perché. Forse il mio inconscio ha preferito dimenticare il fatto di essersi formato, fin dai primi giorni di vita, in un Paese in guerra, proprio durante uno dei peggiori conflitti civili del continente africano. Una cosa è però certa: mi chiamo Ahmed e sono nato a Mogadiscio, la capitale della Somalia, il 4 luglio del 1985. Quel giorno mio padre Abukar era assente, ma non si trattava di un’anomalia: i padri somali non si trovano mai con le loro mogli quando partoriscono, di solito sono le donne a occuparsi del parto e del neonato.

Mio padre aveva sposato mia madre Aisha quando lui aveva ventun’anni e lei diciotto, erano considerati da tutti una coppia modello in città. Avevano una buona reputazione grazie, soprattutto, alla serietà con cui lavoravano e crescevano la loro famiglia. Mia madre mi aveva partorito in un centro ospedaliero chiamato Madina Hospital, una struttura nota a molti per la professionalità con cui continua a curare gran parte delle vittime e dei feriti della guerra civile tuttora in corso. La casa di famiglia distava solo qualche chilometro dall’ospedale, quindi non credo sia stato molto difficile raggiungerlo per Aisha e per le donne che l’accompagnavano anche due anni più tardi, quando è nato mio fratello Ibrahim.

Nonostante le violenze continue, le stagioni si susseguivano in maniera regolare e, come qualunque bambino che cresceva in Somalia, all’età di quattro anni ho cominciato a frequentare la scuola coranica. Era il primo tipo di istruzione ufficiale che i somali dovevano ricevere per poi proseguire gli studi alla scuola elementare.

Ogni mattina, dopo aver fatto colazione, mi recavo a piedi dal maestro per ascoltare la lezione, e imparavo a leggere l’arabo, essenziale per comprendere il Corano e recitarlo poi a memoria. Le famiglie somale considerano gli insegnanti delle scuole coraniche come degli esseri intoccabili; non era quindi tollerabile che un bambino evitasse di studiare e memorizzare i versetti sacri fin da piccolo, non farlo significava partecipare a una specie di rivolta culturale.


Keystone
Mogadiscio, 1985

In casa, invece, la mamma si occupava di gestire la spesa e di cucinare per l’intera famiglia. Un’usanza abbastanza ipocrita della nostra società se collegata al fatto che nei ristoranti di Mogadiscio solo agli uomini era permesso di avvicinarsi ai fornelli. Ma nella Somalia di quei tempi il ruolo della donna era confinato tra le mura di casa e i mercati, non molto di più. Alcune donne erano educatrici, lavoravano in banca, negli ospedali e facevano parte dell’apparato militare, ma si trattava di una relativa minoranza in grado di esercitare questi tipi di professione. Ci sono voluti decenni prima di vedere le donne affermarsi in settori come la politica e gli affari di un certo livello.

Prima di ogni pasto ringraziavamo Dio dicendo “Bismillahi” che significa “Nel nome di Allah”. Il cibo più comune era la pasta e il riso, entrambi quasi sempre accompagnati da carne, mentre il pesce, nonostante la vicinanza all’oceano, veniva servito raramente. Quasi tutti mangiavano soltanto con la mano destra, altri usavano invece le forchette. Con mio fratello più piccolo, però, facevamo a gara per finire prima il piatto e sapevamo che con le forchette si partiva svantaggiati; proprio per questo semplice motivo, durante tutta la mia infanzia, ho sempre mangiato con le mani. Pranzi e cene rappresentano per i somali una preziosa occasione di incontro con familiari e amici poiché, mangiando insieme e a volte condividendo uno stesso grande piatto, si ha la possibilità di ascoltare e raccontarsi le novità del giorno.

Non facevo parte di una famiglia ricca, ma neanche povera. Mio padre era una specie di broker e lavorava sempre vendendo di tutto: terreni, prodotti alimentari, automobili nuove e usate. Avevo una zia paterna di nome Malal, che si trovava in Italia e ci inviava regolarmente un po’ di denaro per aiutarci a fine mese.

Gli svaghi per distrarsi dalla crisi somala erano vari. Ero un bambino molto agitato oltre che permaloso, passavo le giornate a litigare con i miei coetanei. In Somalia, molto di più che negli altri Paesi dove ho vissuto, si arriva subito alle mani, mentre a volte scoppiano delle vere e proprie sparatorie e in quel caso è necessario schierarsi da una parte o dall’altra, non si può restare neutri altrimenti i rischi di perdere la vita aumentano.

Mi è tuttora difficile capire i veri motivi di tale caratteristica del popolo somalo. Lo sport, per esempio, non è un momento di divertimento e spensieratezza, ma è visto come un terreno di intenso conflitto. L’avversario deve essere annientato e umiliato. Se è obiettivamente più forte, allora bisogna provocarlo, trovando il modo per farlo arrabbiare; anche per questa ragione gli arbitri in Somalia sono sempre terrorizzati durante qualsiasi partita. Se vi capitasse di vedere un arbitro con la pistola in tasca, sapreste subito in quale Stato del mondo siete.

Ricordo che un giorno, all’età di cinque anni, stavo giocando e litigando con alcuni bambini del quartiere quando mia madre dovette sollevarmi di peso e portarmi via per evitare che mi facessi troppo male, una routine che, almeno agli inizi, mi sono portato dietro anche durante le prime partite giocate in Italia. Paradossalmente, il popolo somalo è considerato uno dei più ospitali e amichevoli dell’intero continente africano. Ogni tanto ci paragonano ai napoletani, a causa del nostro carattere aperto, rumoroso e sempre pronto alla battuta.


Keystone
Mogadiscio, mercato delle armi, 2004

Anche la diaspora somala, che sta crescendo esponenzialmente in varie parti del mondo, è riconosciuta come molto generosa, non solo in termini di trasferimenti di denaro, ma anche quando si tratta di finanziare la costruzione di edifici, in particolare le moschee. Noi somali, infatti, siamo tutti religiosi e quasi tutti musulmani. Non credere in Dio, Allah nel nostro caso, non avrebbe senso, una caratteristica probabilmente legata anche all’abitudine di vivere decenni dopo decenni in un contesto perennemente in crisi, dove il “supremo”, spesso, rappresenta l’unica alternativa alle nostre sfide quotidiane. Questo approccio alla vita, l’ho notato soprattutto una volta tornato nel mio Paese, provoca due reazioni diametralmente opposte: anche all’offesa più grave come l’uccisione di un individuo seguono sempre profonde scuse da parte del responsabile e dei membri della sua famiglia.

Nonostante i differenti ostacoli e svantaggi nel vivere in Somalia, ci sono delle realtà ancora molto affascinanti. La nostra tradizione resta fortemente legata al nomadismo, uno stile di vita che è alla base di gran parte delle poesie, canzoni e opere d’arte somale. Anche il modo di fare affari ne è influenzato. Può non sembrare, ma la nostra cultura ospitale ci spinge ad accogliere qualsiasi persona, musulmana o no, con sincero piacere e curiosità; cerchiamo infatti di far sentire le persone a proprio agio nelle nostre famiglie. Inoltre, ogni ragazzo o ragazza somala spera di avere un giorno una propria famiglia: il matrimonio rappresenta quindi un’altra parte fondamentale della nostra tradizione.

Un ulteriore aspetto, positivo e divertente al tempo stesso, è quello dei soprannomi. In Somalia tutti li hanno accanto ai loro nomi. Mio padre e mia madre, per esempio, venivano presi in giro per la loro altezza poiché lui era alto 193 centimetri e lei 183, una taglia di circa venti centimetri sopra la media delle donne somale: proprio per questo venivano entrambi chiamati “i due cammelli”. Non ho mai saputo quale fosse il soprannome individuale di mio padre, ma mia madre era chiamata Aisha Dheer, che significa “Aisha l’altissima”. Molti soprannomi non sono dei complimenti, ma la gente non si offende mai.

E poi ci sono gli affari. I somali sono considerati una delle popolazioni africane più scaltre nel fare business, non perdiamo mai un’opportunità per realizzare un progetto e cercare di guadagnarci il più possibile. Inoltre, il mondo degli affari trascende spesso qualsiasi tipo di affiliazione clanica o familiare. Durante la guerra, i terreni rappresentavano la migliore occasione per trarre grandi profitti, comprare degli spazi costava pochissimo; tutti i somali che hanno investito in questo settore, se sono riusciti a sopravvivere al conflitto, posseggono ora dei conti in banca in giro per il mondo con centinaia di milioni di dollari. Anche per questa ragione la diaspora somala ha sempre investito molto nel proprio Paese d’origine.

Inoltre, in uno Stato africano dove quasi tutti vogliono diventare presidenti o almeno ministri, anche l’amicizia ha un valore molto diverso da quello che ho riscontrato in Italia. In Somalia un amico viene considerato uno dei tesori più preziosi che possano essere scoperti nella vita; allo stesso modo, però, è molto facile per un somalo dimenticarsi dell’amicizia non appena viene colta l’opportunità di scalare gli alti gradini della società locale. Io stesso mi sono ritrovato spesso con delle conoscenze nella sfera politica, persone con cui mi sentivo o incontravo ogni giorno e che un tempo potevo vantare come grandi amicizie: una volta investite di una nomina da funzionari governativi, però, le stesse persone sono sparite senza più farsi sentire. Oltre ai politici, nella nostra società hanno un ruolo fondamentale i leader tradizionali, anche se in tempi più recenti questa figura sembra stia perdendo un po’ del suo valore. I cosiddetti “elders”, “vecchi” in inglese, ispirano un grande rispetto e con questo devono essere trattati. Loro hanno regolarmente la funzione di giudici e mediatori riguardo gran parte delle incomprensioni tra persone, famiglie o clan differenti. Fino ad oggi, per esempio, la Somalia non ha avuto un sistema a suffragio universale per eleggere i propri leader politici: questa responsabilità la continuano a detenere i capi tradizionali, anche nei momenti maggiormente delicati della nostra storia, specialmente con l’inizio degli anni Novanta. [...]

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