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Eremita nella città-enciclopedia

Con Carlo Ossola ricostruiamo l'influenza della cultura francese nell'opera di Italo Calvino, nato il 15 ottobre 1923

Se una notte d’inverno un centenario
(Johan Brun, Oslo Museum)
14 ottobre 2023
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Creatura più inquieta di quanto la sua scrittura sorvegliata, cartesiana, precisa lasci immaginare, nel 1967 Italo Calvino lascia l’Italia per trasferirsi a Parigi, dove resterà fino al 1980. Una città che è per lui fonte di ispirazione, occasione di invisibilità, forse anche un modo per prendere le distanze, anche fisicamente, dall’ambiente culturale italiano dell’epoca, che soffre di un’estrema ideologizzazione. Sul periodo parigino di Calvino il filologo e critico letterario Carlo Ossola terrà una conferenza il 27 ottobre all’Institut Français di Milano.

Professor Ossola, perché Calvino si trasferisce a Parigi? Quali attività vi svolge, oltre a scrivere?

“Forse io non ho la dote di stabilire dei rapporti personali con i luoghi, resto sempre un po’ a mezz’aria, sto nelle città con un piede solo”. Così si esprime Calvino nel ritratto autobiografico ‘Eremita a Parigi’, nell’intervista del 1974 a Valerio Riva per l’allora Tsi, poi pubblicata in forma di testo dalle Edizioni Pantarei di Lugano. Calvino parla di Parigi soggiungendo che la città che ama è New York. È, in fondo, il primo cittadino delle Città invisibili, perché quelle che contano sono interiori: “Bisogna che un luogo diventi un paesaggio interiore, perché l’immaginazione prenda ad abitare quel luogo, a farne il suo teatro”. Parigi è un teatro dell’interiorità e anche un museo vivente della storia.

Perché Parigi è, come recita il titolo della sua conferenza, la città dei destini incrociati?

Credo si possa ritrovare in Parigi la ragione di quei piani narrativi che scorrono l’uno sull’altro (e così, parallelamente, in Michel Butor), come le vite che scorrono in superficie e si intersecano nelle stazioni sotterranee della metropolitana. Cito ancora da ‘Eremita a Parigi’: “E forse in questo mio rapporto col Métro entra anche il fascino del mondo sotterraneo: i romanzi di Verne che mi piacciono di più sono ‘Le Indie Nere’ e il ‘Viaggio al centro della Terra’. Oppure è l’anonimato che mi attira; questa folla in cui posso osservare tutti a uno a uno e nello stesso tempo scomparire completamente”.

Quali altre suggestioni parigine influenzano Calvino?

Tra i debiti che Calvino contrae con la città di Parigi c’è sicuramente il paradigma per illustrare i cinque sensi che formerà ‘Sotto il sole giaguaro’, in particolare l’olfatto, i profumi di ‘Il nome, il naso’, o ‘Il museo dei formaggi’; insomma un paradigma dei sensi. Non per niente definisce Parigi “una gigantesca opera di consultazione, una città che si consulta come un’enciclopedia”.

Calvino è un lettore attento di Flaubert. Nel saggio ‘L’invisibile e il suo dove’ lei individua nello sguardo della Félicité di ‘Un cœur simple’ un modello per la trasparenza delle frasi del racconto: che cosa intende?

Le rispondo rifacendomi all’introduzione di Calvino ai ‘Trois contes’, che la visività romanzesca tocca con Flaubert il rapporto perfetto tra parola e immagine, ossia il massimo di economia col massimo rendimento, nonché “la testimonianza d’uno dei più straordinari itinerari spirituali che mai siano stati compiuti al di fuori di tutte le religioni”.

Come si concilia la trasparenza di questo sguardo con l’intenzione di svolgere “una riflessione morale sulle esperienze della nostra epoca”?

Ne è anzi il compimento: il chiarimento della coscienza, la liberazione dai miti ideologici sono il corrispettivo di un impegno etico che Calvino già delineava lucidamente in una lettera a Elio Vittorini del 12 dicembre 1947, in cui si propone di “chiarire su questa via i termini di ‘crisi’ e ‘decadenza’ e ‘rivoluzione’ e arrivare all’enunciazione d’una moralità nell’impegno, d’una libertà nella responsabilità”, che gli sembrano l’unica moralità e l’unica libertà possibili.

Un’altra influenza francese è quella di Charles Fourier.

Calvino è affascinato dalla sfida di Fourier, simile a quella di Leopardi, di indagare la storia oltre la fine dell’uomo. Ciò che più seduce Calvino, nel progetto di Fourier, è appunto “l’ansia di dar fondo all’universo”, è la proliferazione di un linguaggio creatore cosmico, capace di dar conto del cosiddetto “Ordine delle creazioni”, in serie millenarie che varcano i confini stessi della presenza umana sulla terra e arrivano all’ultima Apocalissi: «Mort spirituelle du globe; fin de la nutation et rotation de l’axe; versement de pôle du globe en équateur; fixation hémisphérique sur le soleil; mort naturelle; chute et dissolution lactée». È la teoria dei quattro movimenti.

E poi c’è Dumas, in un racconto di ‘Ti con zero’ che richiama esplicitamente ‘Il Conte di Montecristo’: qual è il significato di questo riferimento?

Più ancora questo racconto suggella ‘La memoria del mondo’, la serie delle Cosmicomiche pubblicate da Einaudi nel 1965 e poi nel 1968. Ed è il tentativo di far coincidere la più acuta lucidità di analisi con la più perfetta atarassia interiore: “Se riuscirò col pensiero a costruire una fortezza da cui è impossibile fuggire, questa fortezza pensata o sarà uguale alla vera – e in questo caso è certo che di qui non fuggiremo mai ma almeno avremo raggiunto la tranquillità di chi sta qui perché non potrebbe trovarsi altrove – o sarà una fortezza dalla quale la fuga è ancora più impossibile che di qui – e allora è segno che qui una possibilità di fuga esiste: basterà individuare il punto in cui la fortezza pensata non coincide con la vera per trovarla”.

Gli anni parigini, lei scrive, non servono soltanto a prendere distanza dall’esperienza italiana prima e dopo il 1957, dandole una prospettiva storica: Calvino inizia con l’Oulipo un rapporto di curiosità, di sperimentazione, di adesione. Che cosa lo attrae di questo modo di fare letteratura?

Il rigore. In un’intervista del 1979 (ripubblicata poi in ‘Sono nato in America’) egli affermerà: “Il nucleo teorico dell’Oulipo – la forza creativa delle costrizioni in letteratura – mi ha interessato fin dall’inizio”, evocando la sua traduzione de ‘Les fleurs bleues’ di Raymond Queneau, nonché l’impianto costruttivo de ‘Il castello dei destini incrociati’.

L’adesione ai principi dell’Oulipo forniva anche l’occasione per applicare in un modo quasi matematico le riflessioni programmatiche sullo specchietto retrovisore quale “fondamentale rivoluzione antropologica”, con cui sganciarsi dalla prospettiva soggettiva, autobiografica, lirica e narcisistica della nostra letteratura?

Certamente. Anzi in un’intervista del 1967 dilaterà ancor più la distanza da cui contemplare le vicende umane: “Impiegare un’immaginazione e un linguaggio siderali, col distacco dell’astronomia, per raccontare situazioni tipicamente umane, situazioni drammatiche o angosciose, e risolverle con procedimenti di astrazione come se si trattasse di problemi matematici: ecco cosa dovevo fare”. Uno stesso “misurare la distanza” in un’intervista a Daniele Del Giudice: “La luna sarebbe un buon punto d’osservazione per guardare la terra da una certa distanza”.

Infine, quali ragioni spingono Calvino a chiudere l’esperienza parigina? Vanno considerate, come emerge da alcune lettere, anche valutazioni di ordine economico?

Risponderei con le parole dello stesso Calvino: “Per me la città resta l’Italia. Parigi è più simbolo di un altrove che un altrove”. E ancora: “Un discorso su me a Parigi non sono mai riuscito a farlo”. Forse il suo essere al mondo è stato davvero quello dell’‘Eremita a Parigi’: “Tra le Città invisibili ce n’è una su trampoli, e gli abitanti guardano dall’alto la propria assenza”.

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