Autrice di ‘Il mondo deve sapere’ e ‘Accabadora’, la scrittrice è morta lo scorso 10 agosto, a 51 anni, vinta da un cancro ai reni al quarto stadio
Scrittrice, drammaturga, blogger, opinionista, critica letteraria, femminista. Le parole, sovente, sono limitate nel raccontare una personalità, confinandola nello spazio ridotto di vocali e consonanti. Michela Murgia era tutte quelle cose, soprattutto era una combattente che si è tuttavia spenta a 51 anni, lo scorso 10 agosto, vinta da un cancro.
Tra i suoi ultimi post, sui social, la ferma critica alla decisione della Rai di cancellare dai palinsesti il programma di Roberto Saviano, ‘Insider’. Poi, qualche giorno dopo, il messaggio dall'ospedale, il sorriso e le cannule nasali dell'ossigeno, per aggiornare amici e fan sulle sue condizioni – “posso stare meglio, ma non bene” – e “ringraziare” della possibilità di curarsi, “in barba a chi demonizza chi paga le tasse”. E ancora, il 5 agosto passato, l'affondo contro il sindaco leghista di Ventimiglia per aver impedito ai migranti che passano la frontiera di rifornirsi di acqua al cimitero.
Voleva “arrivare viva alla morte” Michela Murgia, lo aveva promesso nell'intervista del 6 maggio scorso al Corriere della Sera in cui aveva rivelato di soffrire di un carcinoma renale al quarto stadio. E così ha fatto, senza rinunciare, fino alla fine, a prendere posizione, a far sentire la sua voce libera e antagonista nei confronti del potere, a raccontare sul web tanti piccoli e grandi atti, di gioia, di dolore, di protesta, fino alle nozze del 15 luglio ‘in articulo mortis’ con Lorenzo Terenzi e alla festa il 23 successivo con la sua famiglia allargata, una sorta di manifesto politico anti-patriarcato con gli invitati tutti in bianco e la scritta “God save the Queer”, ricamata con perline rosse sul suo abito fatto per lei da Maria Grazia Chiuri, la stilista di Dior.
“Non è una festa”, aveva spiegato all'atto di sposare Terenzi, attore, regista, autore e anche musicista, conosciuto nel 2017 grazie a uno spettacolo teatrale in cui lei era la protagonista e lui lavorava alla regia. “Lo abbiamo fatto controvoglia: se avessimo avuto un altro modo per garantirci i diritti a vicenda non saremmo mai ricorsi a uno strumento così patriarcale e limitato, che ci costringe a ridurre alla rappresentazione della coppia un'esperienza molto più ricca e forte, dove il numero 2 è il contrario di quello che siamo. Niente auguri, quindi, perché il rito che avremmo voluto ancora non esiste. Ma esisterà e vogliamo contribuire a farlo nascere”.
Circondata dalla sua queer family di dieci persone e dai suoi quattro figli “d'anima” (il più grande di 35 anni, il più piccolo di 20), Murgia ha affrontato le ultime fasi della malattia: “Posso sopportare molto dolore, ma non di non essere presente a me stessa”, aveva detto a maggio al ‘Corriere’, rivelando che, dopo il primo cancro al polmone di anni fa, il tumore era tornato al rene e le metastasi avevano già raggiunto i polmoni, le ossa, il cervello. “Ma non chiamatemi guerriera, odio i militari”, aveva avvertito in un affollatissimo incontro pubblico all'ultimo Salone del Libro di Torino. “Se sono stanca di essere antagonista? In un Paese normale, civile, quello che faccio io lo fanno gli intellettuali e nessuno viene trascinato in tribunale. È l'unico Paese che si definisce democratico dove gli intellettuali sono perseguitati dal potere”, aveva detto con forza in quella occasione. “In un mondo di vili tutto è un atto di coraggio. Io dico quello che penso”.
Nata a Cabras nel 1972, alle spalle una formazione cattolica, prima di dedicarsi alla scrittura Michela Murgia ha svolto diverse attività: dalla sua esperienza come venditrice telefonica è nato ‘Il mondo deve sapere’ (2006), romanzo tragicomico sul mondo dei call center, che ha ispirato l'opera teatrale omonima e il film ‘Tutta la vita davanti’ (2008).
Molto legata alla sua terra, nel 2006, ha dato vita al blog ‘Il mio Sinis’ per raccontarne i luoghi meno noti, nel 2008 aveva firmato ‘Viaggio in Sardegna’. Due anni dopo è uscito ‘Accabadora’, premio Super Mondello e premio Campiello, considerato il suo capolavoro, storia di un'anziana donna che in un villaggio sardo dà, di nascosto, la morte ai malati gravissimi che gliela chiedono, e di una bambina che la donna adotta e che scopre a poco a poco il vero scopo delle uscite notturne della madre adottiva. Nel 2011, ‘Ave Mary’, riflessione senza filtri sul ruolo della donna nel contesto cattolico. Tra le sue opere successive il saggio breve sul femminicidio ‘L'ho uccisa perché l'amavo. Falso!’; e ancora ‘Futuro interiore’, ‘L'inferno è una buona memoria’, il saggio ‘Istruzioni per diventare fascisti’, ‘Noi siamo tempesta’, ‘Stai zitta’, ‘God save the queer. Catechismo femminista’ e infine l'ultimo ‘Tre ciotole - Rituali per un anno di crisi’, entrato subito in testa alle classifiche di vendita: un romanzo che si apriva sulla diagnosi di cancro, un romanzo fatto di storie che si incastrano e in cui i protagonisti stanno attraversando un cambiamento radicale che costringe ciascuno di loro a forme inedite di sopravvivenza emotiva.
“Una sera ti metti a tavola e la vita che conoscevi è finita”. A volte a stravolgerla è un lutto, una ferita, un licenziamento, una malattia, la perdita di una certezza o di un amore, ma è sempre un mutamento d'orizzonte delle tue speranze che non lascia scampo. “Il cancro è il tempo migliore della mia vita” aveva detto qualche mese fa la scrittrice femminista, critica sul governo di centrodestra, paladina sempre pronta a far sentire la sua voce contro le ingiustizie del nostro tempo. Una voce che si è spenta.