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Robert Louis Stevenson, il diamante è per sempre

Per la precisione, ‘Il diamante del Rajà’, un breve momento letterario che indirizza il romanzo poliziesco verso ‘un destino superiore’

Potentemente lirico

Ogni giovedì, con cadenza bisettimanale e per tutta la stagione calda, torna la rubrica ‘Estate giallo-nera’ (da oggi)

Mi circondo delle tracce di Robert Louis Stevenson che reperisco nella mia libreria. Primi i due volumi delle opere di Borges, che lo venerava. Ma subito per contrasto mi torna in mente quel maligno di Chatwin, e vedo i due uno accanto all’altro, Borges e Chatwin, in un filmato televisivo che non ritrovo, un’intervista a due: l’argentino sorridente e dall’apparenza esitante, di esitazione finta e vera come al solito, l’inglese emozionatissimo.

Memorie

Chatwin che recensisce una biografia di Stevenson, di James Pope-Hennessy, malmenandolo dall’inizio alla fine. Ma è sempre Chatwin e non puoi smettere di leggere e ora di rileggere. Alla fine fai la tara: è un pezzo di scrittura, benché appartenente grossomodo al genere “critica”, quasi una performance. La prendi per quello che è – si intitola ‘La via delle isole’ e si trova in Anatomia dell’irrequietezza – e passi avanti. Quest’altro volumetto di Robert Louis Stevenson, ‘Lettera al dottor Hyde’, fra pochi mesi farà vent’anni e sembra appena uscito. Si tratta del numero 305 della famosa ‘Memoria’. Camilleri ha acceso il faro definitivo sulla collana nata per ispirazione di Sciascia, come è noto. Fino al numero 71 è apparsa con risvolti scritti da lui, che ha mantenuto la supervisione anche su molti di dopo.

Ma il vero piccolo orgoglio per me è avere il numero 2, appunto di Stevenson: ‘Il diamante del Rajà’. La pubblicazione è del 1989 ma la prima stampa è di dieci anni prima. Sellerio nasce ancora dieci anni prima, nel 1969. Vedi così che ‘La memoria’ debutta a dieci anni dalla nascita dell’editrice (n. 1, ‘Dalle parti degli infedeli’ di Leonardo Sciascia).

Senza una goccia di sangue

“Stevenson fu il primo ad avviare il romanzo poliziesco verso un destino davvero superiore, quando in ‘New Arabian Nights’ inventò come deus ex machina Florizel principe di Boemia, che torna a reincarnarsi nei suoi libri, sotto tutti i climi e tutte le spoglie...”: scrive Emilio Cecchi nel saggio che chiude il volume. “Verso un destino superiore” senza una goccia di sangue, al limite qualche minaccia e il luccicare del vero male, come spesso in Stevenson.

‘Il diamante del Rajà’ è un breve romanzo a cannocchiale, si può dire, o a staffetta. Il testimone è il diamante più prezioso del mondo che esce da un capitolo ed entra nel seguente. Passa dalle mani del maldestro e ingenuo Harry Hartley, che l’ha avuto dalla signora Vandeleur di cui è segretario – non conosce il contenuto di quella scatola da nastri che dovrà portare a un certo indirizzo, consegnare dietro ricevuta – a quelle di Mr. Raeburn, giardiniere con passato e presente da delinquente, a quelle del giovane e dotto reverendo Rolles che in pochi secondi, il tempo di aprire e chiudere l’astuccio che trova per metà sotterrato nel rosaio, decide che la tentazione è troppo grande per resisterle. Seguiamo il prete, che per disfarsi nel modo più conveniente di un diamante enorme deve affidarsi a chi ne sa più di lui. Il quale preferisce un diamante intero alla sua metà: John Vandeleur, cognato della signora dell’avvio della storia, fratello del generale Vandeleur unico legittimo proprietario del diamante. O meno illegittimo degli altri: possedere un tale gioiello non può essere una faccenda del tutto chiara. Intanto entra in scena Francis, che sta per conoscere il suo vero padre. Francis è quasi la riapparizione di Harry nella sua sprovveduta e generosa ingenuità. Infine, prendendo ormai tutto il campo – finora era comparso qua e là – ecco il principe Florizel, “arbitro metafisico tra la virtù e la colpa” (Cecchi) che deciderà, come ogni deus ex machina degno del nome, la fine del diamante e della storia. ‘Il diamante del Rajà’ avrà sorte simile a quella della perla in ‘The Pearl’, altro magistrale racconto, di John Steinbeck. Due narratori potentemente lirici. Due scrittori maestri nel mettere insieme toni opposti – racconto e poesia – restando essenzialmente narratori.

Chiuso il libretto – 110 pagine senza il saggio finale – pensi agli scrittori ai quali bastano, per potersi reputare grandi, le loro cose giudicate minori, di cui si parla alla fine dei capitoli. O non si parla. Le pagine uscite dal loro lavoro come un di più.

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