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Simona Argentieri, sconfinamenti del nostro vivere

Medico, psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association, autrice, ricercatrice. L’abbiamo incontrata nei giorni di ‘Sconfinare’

Simona Argentieri
(Michela Locatelli)
26 ottobre 2022
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‘Sconfinare Festival’, promosso dalla Città di Bellinzona, ha chiuso da poco la sua terza brillante edizione. E anche quest’anno abbiamo assistito a un felice appuntamento e luogo di incontro e riflessione, di interazione tra cultura internazionale e territorio, con rappresentanti del pensiero scientifico e umanistico, tra linguaggi della biomedicina e delle neuroscienze, pensiero filosofico e forme di espressione artistica, inaugurazione di un nuovo importante premio di poesia e interventi di romanzieri della Svizzera italiana.

Della terra straniera dell’inconscio, delle molte interpretazioni della parola ‘Confini’ e delle infinite possibilità di oltrepassarli abbattendo limiti e muri simbolici ci ha parlato la psicoanalista e saggista Simona Argentieri, mettendo a fuoco sensibili aspetti del nostro vivere, come il limite misterioso tra stato di veglia e sonno, fra individuo e mondo, tra vissuto del sé corporeo e realtà esterna. Confini che producono separazioni e divisioni, quando si fanno muro drammatico e invalicabile tra individui e popoli. Simona Argentieri è medico e psicoanalista, membro dell’International Psychoanalytical Association e autrice di moltissime pubblicazioni, ricercatrice e studiosa delle contraddizioni del nostro tempo, da sempre interessata al mutamento dei ruoli familiari, ai rapporti tra lingua madre e multilinguismo, allo sviluppo psicosessuale e all’identità di genere, alle relazioni tra psicoanalisi e cinema, al mondo delle relazioni educative. Le abbiamo posto alcune domande.

Qualche decennio fa la psicoanalisi non è forse stata oggetto di mitizzazione, sopravvalutazione, aspettative eccessive, le cose sono oggi diverse, o mi sbaglio?

È vero, in passato si chiedeva e ci si aspettava troppo dalla psicoanalisi come chiave di lettura e come rimedio di ogni problema della vita. Tanto più che fino a qualche decennio fa gli psicoanalisti erano pochi, quasi tutti provenienti dalla medicina e dalla psichiatria, con una successiva formazione in psicoanalisi molto lunga e molto impegnativa. Era difficilissimo avere un appuntamento come paziente o essere ammessi a una scuola freudiana o junghiana come candidato. Poi, con l’apertura delle Facoltà di psicologia sono arrivati sulla scena migliaia di giovani con formazioni molto diverse, sia per impostazione teorica, sia per rigore dei corsi e selezione dei candidati. Al momento ci sono oltre trecento scuole e associazioni, tutte equiparate sul piano legale, ma di assai variabile spessore culturale.

Come si curano oggi le malattie mentali?

Nel caso delle vere e proprie malattie mentali, dalla necessaria riforma dell’abolizione dei manicomi in poi non siamo ancora riusciti a trovare un equilibrio tra protezione e rispetto della libertà. Il personale di area psichiatrica di specifica competenza è numericamente insufficiente, e in più, questa è la mia personale opinione, l’approccio cognitivo-comportamentale oggi prevalente, che non condivido, è interessato più ai sintomi che alle cause profonde della sofferenza. Ci si occupa più della riabilitazione e dell’inserimento che della psicopatologia. Di modo che la cura della psicosi è per la maggior parte dei casi deputata agli psicofarmaci. Strumento necessario e prezioso, ma che dovrebbe essere integrato con la psicoterapia di parola da parte di operatori altamente qualificati.

Nel suo intervento ha parlato dello strano modo di definire oggi molti disturbi, omologandoli, per esempio, sotto la definizione di ‘attacchi di panico’.

È una diagnosi di comodo, apparentemente scientifica, che non significa nulla. Descrive solo una crisi acuta di angoscia, dietro la quale ci può essere di tutto, da una fragilità di base della personalità, all’isteria, alla sintomatologia generica di una nevrosi, fino all’esordio di una psicosi...

Come spiega questo adeguamento totale e supino a certe diagnosi? Lei ha anche affermato che le patologie vere oggi non le cura più nessuno...

Purtroppo tali pseudo-diagnosi trovano il favore di una certa psichiatria, che pretenderebbe sbrigativamente di liquidare ogni paziente con un farmaco specifico. E purtroppo tale approccio piace anche ai pazienti, che evitano così di dover capire quale storia di malessere ci sia dietro il sintomo dell’affanno, della sudorazione, della paura di svenire... Credo sia una via di fuga dalla responsabilità di sé stessi e delle proprie scelte. Ma è un cattivo affare. Potersi rifugiare dietro una diagnosi generica (o magari che segue le ‘mode’ del tempo), come ‘attacchi di panico’, ‘sindrome post traumatica da stress’ (oppure oggi ‘disforia di genere’...) sembra dare una compattezza e una identità sia pure patologica al proprio malessere; che andrebbe minuziosamente indagato nelle sue radici, prima di essere tacitato solo sul piano manifesto.

Il concetto di ‘depressione’ a volte non è una coperta buona per tutto? Mi sembra che ultimamente sia diffusa soprattutto la paura stessa di... "andare in depressione" come uno stereotipo culturale anticipatorio.

L’abuso indiscriminato dell’etichetta di ‘depressione’ è non solo sbagliato sul piano scientifico, ma anche pericoloso. Ad esempio, definire ‘depressa’ una madre assassina (come spesso fa la cronaca giornalistica), nasconde una ben più grave patologia di area psicotica. Per contro si può confondere con depressione una infelicità esistenziale o uno scontento rispetto a una realtà sociale, che non sono patologie. Se perdiamo una persona cara è certo che viviamo un lutto e diventiamo, in senso colloquiale ‘depressi’. Ma questa è vita, non una malattia da curare magari con farmaci antidepressivi. Non per moralismo, ma perché non funziona. Di fronte ai problemi basilari dell’esistenza siamo tutti pari, come diceva Freud, il compito della psicoanalisi è solo trasformare la sofferenza nevrotica in normale infelicità, il che, secondo me, non è poco.

Che cosa chiedono le persone allo psicoterapeuta?

Vorrebbero essere sollevate da sofferenza e conflittualità interiore, presto e senza fare fatica, senza pagare il prezzo di dover cambiare, di riconoscere i limiti che la realtà impone. È umano, lo riconosco, però non è possibile. E far comprendere la necessità di negoziare con il reale è uno dei compiti più ardui della psicoanalisi.

Lei è interessata a molti aspetti della comunicazione all’interno dell’istituzione educativa. Perché tra famiglie e classe insegnante è tanto difficile parlarsi senza equivocare? Lo psicoanalista potrebbe aiutare?

Sì, mi piace molto condividere gli strumenti del pensiero psicoanalitico al di fuori dell’attività clinica, con persone che fanno parte della società civile come genitori e insegnanti disponibili a discutere insieme. Non vorrei limitare la mia attività, come troppo spesso accade, ai danni già avvenuti. Non intendo fornire precetti o ricette comportamentali, ma intessere un dialogo che aiuti le persone a formulare meglio e più onestamente i loro problemi.

Oggi assistiamo a incessanti offerte di interventi terapeutici di ogni tipo: counseling, sciamanesimo... molte forme di meditazione... Le persone non rischiano la confusione?

Sì, questo mi sconforta. Troppo spesso le persone scelgono con più attenzione il ristorante o il parrucchiere di quanto facciano con lo psicoterapeuta, al quale affidano la guida del proprio equilibrio affettivo e mentale. Non sanno neppure la differenza tra uno psicologo, uno psichiatra e uno psicoanalista. Ovviamente non faccio nomi di associazioni, ma ciascuno potrebbe almeno chiedere la laurea di base e il percorso formativo del professionista al quale si rivolge. Poiché la mia non è una appartenenza di nascita a una élite, ma è stata una scelta, mi piace ricordare che la base della formazione dei freudiani è una lunga analisi.

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