Culture

Cinque giovani svizzeri tra le vene aperte dell’Argentina

Partiti alla volta del Sudamerica, hanno fondato il gruppo Campo Abierto per promuovere la diversità culturale. Parola al ticinese Alessio De Gottardi

Foto di gruppo. Quattro dei cinque membri fondatori: Manuel, Alessio, Emanuel, Matthias
(Campo Abierto)
24 ottobre 2021
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Un’antica lingua modellata dal vento, dalla pampa, dall’altipiano e dalla sierra che attraverso vecchie storie di avi risorge e torna protagonista; l’identità plurale di un popolo in via di estinzione che si ricompone e si fa visibile. È con simili parole che in un video di presentazione Daniel Huircapan, membro della comunità indigena Gununa Kena, descrive il senso della mostra in corso a Buenos Aires (Sala La Rueca, 8 settembre - 4 novembre) dal titolo “Meseta de Somuncurá / Chüüyü Wülach”, organizzata dal collettivo Campo Abierto creato da cinque giovani svizzeri. Situato nel nord della Patagonia argentina, l’Altipiano Somuncurá – che nella lingua del posto significa ‘pietre sonore’ – è un territorio solcato da ferite aperte create da annosi conflitti territoriali e controversie sociali ancora in corso. Alessio De Gottardi, cresciuto a Lumino e da nove anni residente tra il Ticino e Zurigo, è uno dei fondatori del gruppo di artisti, architetti, documentaristi nato con lo scopo di promuovere la diversità culturale e creare spazi di riflessione su comunità e i loro luoghi.

Indagare le trasformazione dei territori

«Durante gli studi al Politecnico di Zurigo in Architettura ho organizzato uno scambio con l’università di Buenos Aires – racconta Alessio –. Nel corso della mia residenza in Argentina ho conosciuto un avvocato con dei terreni in Patagonia che mi ha offerto di soggiornare nella sua casa. Due anni dopo, nel 2018, finiti gli studi io e un amico svizzero tedesco abbiamo pianificato un viaggio nell’Altopiano Somuncurá con l’idea di fare un documentario senza però avere in testa un tema ben preciso. Per coincidenza abbiamo scoperto che in questa zona intorno al 1860 un naturalista svizzero, Jorge Claraz – che ha vissuto i suoi ultimi anni a Lugano –, ha seguito il cammino nomade al centro dello stile di vita della tribù locale tenendone traccia su un libro. Oggi quest’opera è una delle poche fonti di informazione sulla cultura dei Gununa Kena». Da allora molto è cambiato. «Con la conquista del deserto è iniziato un processo di colonizzazione dei terreni della Patagonia – spiega Alessio –. Spagnoli, turchi, italiani, arabi e cittadini di altre zone si sono appropriati di pezzi di terra privatizzandoli e recintandoli, dividendo fino all’orizzonte il vasto e bellissimo paesaggio». Così la comunità del posto da nomade è stata costretta a diventare sedentaria, vedendo stravolto il suo modo di esistere. Proprio per sensibilizzare su analoghe questioni è stato costituito il collettivo: «Ci interessa indagare i processi di trasformazione dei territori contemporanei dovuti ai meccanismi di colonizzazione e globalizzazione. Abbiamo scelto il nome Campo Abierto che è il modo in cui i membri della cultura Gununa Kena chiamano quanto c’era prima, ovvero la terra senza confini in cui si potevano muovere liberamente. Questo ha anche a che fare con il nostro atteggiamento: aperto, senza pregiudizi, come un foglio bianco da riempire man mano. Per conoscere la comunità di cui ci stiamo occupando abbiamo vissuto sul posto e osservato il modo in cui i suoi membri lavorano, che materiali impiegano, come prendono decisioni in armonia con il territorio, e ci siamo messi in ascolto delle loro storie».

Una mostra contro l’oblio

Il collettivo conta cinque membri fondatori ed è caratterizzato da un approccio multidisciplinare. «Siamo io; Matthias Müller Klug che come me è architetto; Emanuel Hohl, regista; Milo Schwager, scenografo e Manuel Jäggi, sociologo-geografo. Molto diversi tra noi ma complementari, ci piace tessere relazioni tra i nostri vari ambiti di specializzazione. In Patagonia ad esempio abbiamo progettato e realizzato una fermata del bus coperta di pelli di animali lavorate secondo la tradizione del luogo, girando anche un video: un piccolo intervento volto a rispondere alle necessità degli abitanti e incentivare le loro capacità di avviare nuove reti di microeconomia». L’articolata mostra in corso di svolgimento è la sintesi dei vari interventi e indagini compiuti sul posto. Suddivisa in quattro stanze, chiamate camere «come quelle per sviluppare le fotografie», si avvale di diversi registri. «La prima camera contiene i nostri lavori di cartografia sul vecchio cammino dei nomadi Gununa Kena: abbiamo letto il libro di Claraz e seguito le sue orme con un Gps per marcare questa via mai esistita sulle mappe. La seconda stanza presenta un’installazione audio dove si ascoltano dei suoni dell’Altopiano: vento, persone che parlano, macchinari; l’intento è far sentire ai visitatori l’atmosfera del territorio. La terza parte è costituita da una parete con fotografie di diversa natura, mentre l’ultima è un’installazione audiovisiva fatta di interviste con la popolazione locale e situazioni che mostrano la vita ordinaria di fronte allo stesso sfondo, la collina chiamata Cerro Negro».

Una domanda che è stata sempre al centro dello sviluppo del progetto è “Come possiamo noi svizzeri andare in Argentina e parlare di una terra altrui e di conflitti che non ci toccano direttamente?”. La risposta del collettivo alla sensibile tematica è stata la creazione di una piattaforma dove comunità, artisti, attivisti, storici, visitatori si potessero incontrare e condividere le proprie esperienze. «L’esposizione non è nostra ma vive grazie alla gente che vi partecipa. Abbiamo voluto allestire uno spazio di incontro per riflettere sul passato e la memoria collettiva e sui conflitti che tutt’ora esistono, in modo da creare una consapevolezza sulla storia e il destino di queste comunità e questi territori». Quanto all’accoglienza, dice con orgoglio Alessio, «abbiamo ricevuto molti riscontri positivi, in particolare da Daniel – citato in apertura – che ha speso la sua intera vita impegnandosi affinché la cultura dei Gununa Kena potesse essere riconosciuta ufficialmente in Argentina. Siamo onorati con il nostro progetto di poter contribuire a sostenere questa loro lotta per l’autodeterminazione». Alessio e i suoi compagni stanno seguendo il fermento intorno alla mostra in prima persona. «Abbiamo stilato un ricco programma di eventi a cui prendiamo parte. Si tratta di conferenze, performance, visite guidate, concerti con strumenti autoctoni e molto altro ancora». Il progetto è sostenuto dall’Ambasciata svizzera in Argentina e da Pro Helvetia nell’ambito degli scambi culturali tra Sudamerica e Svizzera. A proposito del ritorno in Europa, previsto per novembre, che cosa di questa esperienza i cinque amici porteranno a casa? «Personalmente – risponde Alessio –, oltre ad aver meglio imparato a entrare in relazione con persone di lingua e cultura diverse e ad aver acquisito competenze nel fare film ed esposizioni, ciò che di più prezioso metterò in valigia è l’esempio della determinazione con cui gli attivisti che abbiamo conosciuto nel nostro percorso portano avanti i loro ideali nonostante le tantissime porte in faccia ricevute. Mi ha sempre molto toccato come continuano a resistere senza perdere la fiducia, e questo mi dà una grande forza per fare altri progetti». Le idee per il futuro non mancano: «Una è legata a un’esperienza che ho fatto qualche anno fa su una nave container dove ho trascorso 40 giorni in mezzo all’oceano vivendo con i marinai e filmandone la quotidianità. Si tratta di un progetto che ho messo in pausa ma che con Campo Abierto ci piacerebbe riprendere. Un altro tema che ci interessa sono le relazioni a distanza: da quando è scoppiata la pandemia è venuta alla ribalta la problematica dell’impossibilità di incontrarsi che ha coinvolto molti e si è assistito all’emergere di nuove forme di conflitti nella società». Anche in questo caso è questione di territori che si trasformano. E di un’arte socialmente impegnata che ne tematizza i processi contribuendo a decolonizzare in primo luogo le nostre menti.

Maggiori informazioni su www.campoabierto.ch.

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