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Dall’Afghanistan al Ticino, storie che bisogna raccontare

Silvia Bello Molteni, autrice di ‘Non sei solo’, spiega come è nato il suo romanzo ispirato ai racconti di un profugo

16 settembre 2021
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La storia di Mahdi, dei suoi genitori che si sono conosciuti in una cittadina dell’Afghanistan e si sono sposati contro il volere delle loro famiglie, della vendetta che uccide i genitori e costringe il giovane a lasciare un Paese in cui non può trovare pace raggiungendo, nascosto in traghetti e camion frigoriferi, la Svizzera: una storia che Silvia Bello Molteni racconta in ‘Non sei solo’ (Edizoni Salvioni), un romanzo ispirato dal racconto di un vero viaggio dall’Afghanistan al Ticino come ci spiega l’autrice che venerdì 17 settembre alle 18.30 presenterà il suo libro alla Biblioteca cantonale di Bellinzona. Insieme a lei, Sarah Rusconi di Amnesty International Svizzera.

‘Non sei solo’ è un romanzo, ma non si tratta totalmente di un’opera di finzione.

Qualsiasi cosa si scrive, la finzione c’è sempre, ma c’è anche vita. Quello che posso dire è che una parte di ‘Non sei solo’ – diciamo l’ossatura, i fatti principali – è vera, è quello che mi è stato raccontato. Ma chi mi ha raccontato questi fatti, alcune cose non le sapeva o non le ha conosciute direttamente e quindi le ho dovuto ricostruire. Diciamo che ‘Non sei solo’ è un romanzo con alla base un racconto autentico.

Per questo si è scelta la forma del romanzo che lascia maggiore libertà rispetto al saggio o la biografia?

Sì: a me è stata raccontata una storia e io ho voluto scriverla, elaborandola, aggiungendo altre storie che ho sentito. Poi, per facilitare la lettura ho dovuto lavorare sulla struttura narrativa. Così è nato il romanzo.

Come è entrata in contatto con la storia da cui il romanzo è partito?

Mi sono occupata, alla Clinica Moncucco, del progetto IntegraTI per l’inserimento scolastico e professionale di persone rifugiate. Un percorso di tre anni, con il primo anno di pre-apprendistato e due di apprendistato. Il progetto è adesso parte della normale offerta formativa della clinica e io attualmente sono responsabile della scuola interna del primo anno. È un lavoro che mi porta a incontrare molte persone, non solo i miei allievi ma anche loro amici e parenti, e ad ascoltare le loro storie. Una di queste mi ha particolarmente colpito e me la sono fatta raccontare in modo approfondito.

Nel libro sono anche confluiti altri racconti.

Questa è la storia che ho conosciuto meglio, ma non è certo l’unica. Ho quindi inserito vicende e fatti accaduti ad altre persone, piccoli episodi o aspetti culturali che ho romanzato come per esempio i matrimoni pianificati dalle famiglie.

Ha detto che sono passati alcuni anni dal primo incontro alla decisione di approfondire questa storia per scrivere un libro. Cosa ha portato a questa scelta?

A me piace ascoltare le storie delle persone, quelle che poi vanno a formare la storia del mondo. Quello che mi porta a scrivere – ho già pubblicato una raccolta di racconti – sono storie o osservazioni che mi toccano particolarmente e che mi restano dentro. La storia alla base di ‘Non sei solo’ mi aveva particolarmente colpito per quello che questo giovane ha vissuto e per come lo ha raccontato.

È una storia che è cresciuta dentro di me e che ho voluto raccontare perché in Ticino si parla spesso di migranti e di rifugiati, ma ho l’impressione che non si conoscano bene le storie che queste persone si portano dietro. Perché scappano? Che cosa vuol dire scappare dal proprio Paese? Sono cose che dovremmo conoscere, e questo indipendentemente dalle opinioni politiche, da quello che uno vuole o non vuole fare per aiutare i rifugiati.

Ricordo che quando ho chiesto a questo giovane afghano (che vuole restare anonimo) di raccontarmi bene la sua storia, quando ormai aveva trovato un lavoro stabile, la sua risposta è stata: “Io te la racconto perché adesso sto bene, e visto che sto bene comincio a dimenticarmela e io non voglio”.

Come si è svolto questo secondo racconto?

Nel 2018, tra giugno e settembre, ci siamo incontrati un paio di volte al mese e lui mi raccontava – con tutti i “buchi” che è normale ci siano in una testimonianza – la sua storia, partendo dall’incontro fra i suoi genitori e arrivando al presente, incluso il viaggio fino in Svizzera. Io registravo quello che lui diceva e all’incontro successivo avevo sempre pronta la trascrizione, parola per parola, di quello che mi aveva detto la volta precedente, senza aggiungere niente. Da lì ho iniziato la stesura del romanzo inserendo personaggi, luoghi e vicende plausibili, storicamente e geograficamente, che sostenessero narrativamente la storia di partenza. Regolarmente gli leggevo quello che avevo scritto. Alla fine della prima stesura il suo commento è stato: “Ora l’albero ha le foglie” – e poi, con un sorriso, ha aggiunto che quella non era più la sua storia. Ed è proprio così: è un romanzo.

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