Fotografia

Alfio Tommasini, quattro inverni seguendo la 'Via Lactea'

È ora in un libro, corredato da un testo di Noëmi Lerch, il lungo progetto del fotografo ticinese, co-fondatore del Verzasca Foto Festival.

© Alfio Tommasini
14 novembre 2020
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Se non fosse per il logo della multinazionale sulla felpa, l’ultima contadina di Largario – Doris, una giovanissima donna che accarezza il muso di un vitellino – potrebbe anche non essere l’ultima. Così come se non fosse per il gancio della felpa, l’apprendista agricoltore di Airolo – una seconda giovane donna dal mezzo sorriso leonardesco – oggi potrebbe anche essere nonna. Perché, in superba sospensione, sembrano non avere una connotazione temporale esatta le fotografie di Alfio Tommasini che vanno a comporre ‘Via Lactea’, libro che nasce concettualmente 7’500 anni fa “quando gli adulti hanno iniziato a trattenere l’enzima necessario a metabolizzare il latte dopo l’infanzia” – dalle note di presentazione del volume edito da Patrick Frey – ma, fotograficamente, quattro inverni or sono, quando il ticinese fotografo freelance dal ragguardevole palmarès, co-fondatore e direttore artistico del Verzasca Foto Festival, s’è introdotto nei regni dei piccoli agricoltori e allevatori di bestiame, fin dentro i laboratori del latte, in Ticino e nella Svizzera tutta, per fermare nel tempo immagini che stanno a metà tra documento e arte.

È permesso?

«Ho viaggiato molto – ci racconta – e non so dire quanti chilometri abbia fatto. A volte mi fermavo a dormire nelle stalle, ove ve ne fosse la possibilità, o affittavo una stanza, se previsto da chi mi ospitava. A volte partivo alle tre di mattina, seguendo strade secondarie, cercando le stalle. Mi fermavo, spiegavo il mio progetto in modo dettagliato e chiedevo il permesso di scattare».

Dentro l’obiettivo di Tommasini sono finiti uomini e donne, giovani e anziani (il “barba bianca” di Cazis nei Grigioni e il vecchio che fuma a Muotahal, nel Canton Svitto), gli animali nell’intero e nel dettaglio (la mucca che fa capolino dalla porta di un fienile di Altdorf, Uri), le strade e i cieli di notte, con la scia dell’aeroplano nel buio di Mesocco che pare una stella che cade all’insù. Il tutto, nell’estrema disponibilità di una categoria meno abituata di altre a stare sotto i riflettori, fattasi ritrarre senza ritrosie: «Una disponibilità che mi ha sorpreso. Ho sempre cercato di essere chiaro da subito sulla destinazione delle foto. Ma ho sempre ricevuto una risposta positiva. Ho capito che da parte loro il mio interesse era percepito come piacere e non come intrusione. D’altra parte le stalle sono sempre aperte, difficilmente ci trovi lucchetti. Entri e ti presenti…».

Visi, volti, in esterni e interni, mucche da latte, vitellini, mammelle, spalaneve, paesaggi, strade, elementi, case, notti. E strutture. Come il centro analisi di latte di Zollikofen nel Canton Berna, o gli studenti di tecnologia del latte di Sursee, Lucerna, col suo tavolo di lavoro nel laboratorio di analisi che in fotografia ha le tonalità Kodak di Stanley Kubrik, scatti che per equilibrio, ordine, dettagli ed essenzialità ricordano l’immenso archivio ‘industriale’ di Vincenzo Vicari, i cantieri, le fabbriche, gli uffici, i negozi del Ticino. Retrobottega inclusi.

«Non volevo fosse un reportage sulle mucche da latte, o sul latte. Parallelamente, m’interessava affrontare quelli che sono certi cliché di rappresentazione della Svizzera, e vederli anche sotto un’altra forma», continua l’autore, confrontatosi con «simboli che sono spesso anche i nostri luoghi comuni. Più che fare un reportage, infatti, ero interessato a cercare atmosfere, a catturare l’arrivo dell’inverno, il calore del contatto uomo-animale, a raccontare anche i tempi di un mondo in evoluzione. Perché può capitare di trovarsi in una vecchia stalla d’alta montagna che in un angolo ha tutta la tecnologia di ultima generazione applicata al settore», certificazione del cambiamento e della progressiva meccanizzazione di un antico mestiere.

«Sono voluto tornare indietro, un po’ per capire la vita dei nonni che non ho mai conosciuto, che si dedicavano a questo. Un po’ per la nostra storia, e per come oggi, al supermercato, ci riesce difficile pensare all’origine di quello che stiamo comperando. Senza moralismi, perché non era questo quello che cercavo». E in questo senso, ‘Via Lactea’, per usare parole di Tommasini, è «un libro lento», perché girare di cantone in cantone necessita tempo, ancor più se bisogna attendere ogni ritorno d’inverno. Lento anche perché «ho iniziato questa professione facendo qualcosa di molto vicino al fotogiornalismo, più all’attacco, più ‘da caccia’. Per queste immagini, invece, ho dovuto rallentare per conoscere i miei soggetti». Soggetti che sono tanti, troppi per entrarci tutti, in un unico volume. Chi, tra le valli di Blenio e Leventina, per esempio, non si ritroverà, si sarà certamente già ritrovato all’interno di almeno due delle mostre che hanno preceduto il libro. Il che ci riporta al dicembre del 2017 (cfr. laRegione del 27 dicembre), all’inaugurazione del progetto con la mostra di Campo Blenio cui sarebbero seguite quelle di Asunción (Paraguay), Montevideo (Uruguay), Monza e Lugano, compresi il terzo posto al Sony World Photography Award e il primo premio alla Phodar Biennal in Bulgaria con gli scatti tratti dal progetto.

Bianco

Oggi, quel progetto, è nelle 164 pagine di un libro dalla copertina coerentemente bianco latte, con al suo interno 92 fotografie accompagnate, ma solo in coda, da uno scritto di Noëmi Lerch, un Premio svizzero di letteratura 2020 che ha scelto la vita contadina e che a quel mestiere ha dedicato tutto un libro (‘La contadina’, anche Premio Schiller 2016). Lerch arriva dopo le fotografie e prima delle caption, nomi e luoghi di fotografie lasciate sin da subito all’interpretazione di chi guarda. «Ho voluto suggerire, ho cercato di non dire tutto, di lasciare spazio all’immaginazione, in linea con una delle lezioni di base del documentarismo che ho cercato di non dimenticare mai».

Immaginazione. Accade, per esempio, con il fumo negli occhi del contadino di Schwyz che quasi diventa sciamano, o la casa con il ritratto sulla finestra, tra il gotico e ‘The Village’ di Shyamalan: «Inizialmente ero convinto ci fosse qualcuno. Era una mattina che cercavo e cercavo; nevicava moltissimo, ero nei pressi di un passo e mi sono ritrovato bloccato nella neve. Pensavo di avere trovato finalmente qualcuno…». (www.alfiotommasini.com)

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