Culture

I settantacinque di Marco Solari, incontro dopo incontro

Dalla gavetta come guida turistica fino ai giorni nostri, Mr. Locarno Festival si racconta nel giorno del suo compleanno, sotto luci non ‘cinematografiche’

Marco Solari (Ti-Press)
28 dicembre 2019
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La scommessa era: si può intervistare Marco Solari senza parlare di bilanci, direttori artistici, strategie future, annessi e connessi, strettamente e non, del Locarno Festival degli ultimi vent’anni? Forse sì, magari in occasione dei 75 anni che festeggia oggi. È così che è nata la domanda “Marco Solari, risponderebbe sulle pagine della ‘Regione’ alle nostre domande, prendendo spunto dai mille incontri di una vita professionale che, immaginiamo, sarà piena di aneddoti?”. «Accetto» dice il nostro interlocutore, uomo che ha attraversato la storia svizzera mai disgiunto da questo Cantone, prima di tornarvi per rianimare una manifestazione artisticamente ed economicamente in difficoltà e tentare di riportarla ai livelli di altri festival mondiali.

«Ho avuto l’immensa fortuna che tutte le mie passioni si sono trasformate in lavoro. E forse è accaduto anche il contrario» esordisce Solari per un bilancio professionale, stante anche il fatto che il Locarno Festival, a guardare indietro, non è stato il momento più difficile. «Il periodo più duro – racconta – fu quando ero uno dei cinque amministratori delegati di quell’immenso impero che era la Migros. Lì, nella durissima Grande distribuzione, credo di aver messo alla prova il mio limite psicofisico». Dirigere la Migros, dal 1992 al 1997, significava «scalare l’Everest, ogni giorno, spesso con poco ossigeno». Il segreto? «Anche oggi, amare ciò che si fa, con tutte le difficoltà. Ho sempre cercato di mantenere un equilibrio, certo del fatto che nella vita i regali non arrivano da nessuno e che devi anche sempre ritagliarti un minimo di spazio per la tua vita privata. Meglio ancora se hai, come io ho, una moglie che ti sorregge per tutta la vita». Più qualche altro «firewall, per non farti mangiare vivo dai nemici che tutti abbiamo».

Dalla gavetta all’onorificenza

In tenera età, Solari frequentava le ampie stanze del Grand Hotel di San Pellegrino, struttura in stile Belle Époque della quale gli zii erano direttori; sito in riva al fiume Brembo e per anni meta di illustri letterati, uomini di Stato e squadre di calcio per i ritiri pre-campionato, il Grand Hotel è ancora oggi alla ricerca di imprenditori che ne riaprano porte e finestre. «Forse fu lì che nacque l’amore per il turismo, in quel luogo di italianità tanto apprezzata vivendo a Berna», complici «la ferrovia, la funicolare, la musica» e un innato ‘senso dell’intrattenimento’, inteso come guida turistica, mestiere con il quale il giovane Solari finanziò i suoi studi provocando una crisi generazionale: il padre, severo, imponeva una vicinanza alla famiglia «che andava a scontrarsi contro il mio bisogno di libertà», quella di un giovane che chiedeva un’università fuori dai confini paterni, trovata a Ginevra (città in cui si laureerà in scienze sociali) e la relativa indipendenza. Da cui, lezione n. 1: «Devi sempre essere coerente con te stesso, regola che è valsa per i miei figli e ora vale anche per i miei nipoti. Qualsiasi scelta facciano, io li ho sempre sostenuti, perché sono dell’avviso che non c’è nulla di peggio che cercare di condizionare le persone».

Tanta era la voglia di libertà, Solari, che quest’anno le hanno anche conferito il Premio Oertli per i suoi sforzi di integrazione tra le regioni svizzere, e il Premio Bonny (che alla libertà affianca anche i valori liberali). Che rapporto ha con i premi? Li ama, li espone? «Premetto che non ho ancora conosciuto nessuno che non abbia provato piacere a ricevere o un premio o un’onorificenza. Ho imparato una cosa nella vita: tutti abbiamo bisogno di riconoscimento. Questa convinzione mi ha portato ad avere un rapporto particolare con le persone: ho sempre, con assoluta coerenza, tentato di far star bene le persone intorno a me e di rispettare la loro dignità, tanto per il primo lavoro in Piazza Nosetto come direttore dell’Ente Ticinese per il Turismo – Ett, dal 1972 al 1991 e quale presidente dal 1997 al 2000 – quanto nel 1991 per il Settecentesimo – il compleanno della Confederazione del 1991, a lui affidato –, ancor più per il tempo trascorso alla Migros, dove mi dissero che si guida un’azienda con i numeri e non con le emozioni, che invece per me sono il centro. È valso per i miei anni alla Ringier – vicepresidente dal 1997 al 2004 – e vale ancora per il Festival». Da cui, lezione n. 2: «In ogni persona c’è un potenziale; devi saperlo scoprire e se la schiacci non avrai mai nulla, né per te come persona, né per la causa che stai perorando. Il rapporto con le persone è fondamentale, è noto in Ticino che prima di ingaggiare una persona, io la inviti a pranzo o a cena solo per vedere come si comporta con il cameriere».

Gli incontri di Solari partono dal suo professore, Jean-François Bergier (colui che diede il nome all’omonima Commissione sugli averi ebraici), che negli anni dell’università lo spinse ad approfondire il suo lavoro universitario negli archivi di Bangkok, «sempre gestendo i turisti di giorno, e con il caldo bestiale della Thailandia». E quando, in Ticino, Solari arriva alla guida dell’Ett, forte dell’esperienza turistica, crea un ‘caso’: «Essendo cresciuto a Berna, sapevo che l’immagine che gli svizzero tedeschi avevano del Ticino era paternalistica e con poca dignità per il Cantone. Tentai di cambiare questo profilo degradante, stereotipato, riferendomi alle bellezze naturali e alla grande storia dell’arte». Così nacquero lo slogan “Ticino terra d’artisti” e il manifesto con gli affreschi tardo gotici della Chiesa di Santo Stefano a Miglieglia, assieme alla casa di Mario Botta.

Un partigiano come presidente

Nel maggio del 1981, nei compiti della cancelleria di Stato non rientravano i viaggi ufficiali o le visite di Stato. L’Ett si inserì in quel vuoto. «Nel primo viaggio organizzato ebbi uno scontro con Berna perché cercai di insistere per una fermata a Faido del treno speciale Trans Europe Express che trasportava Sandro Pertini, affinché incontrasse gli operai italiani. Berna disse no. Io mi imposi e il treno si fermò». Il risultato fu che Pertini non se ne voleva più andare, pianse alle melodie delle canzoni partigiane con le quali fu accolto. Nel suo soggiorno ticinese, il presidente che un anno dopo ‘vincerà’ i Campionati del Mondo di Spagna, nei quali alcuni storici identificano il miglioramento dei rapporti tra cittadini svizzeri ed emigrati italiani, preferì l’Olivella all’albergo di gran lusso. E quando Solari racconta, ha gli occhi lucidi. «La sera ci fu un concerto della Vos di Locarno. La mattina dopo, Pertini fece colazione con un tazzone di caffellatte. Mi chiese chi fossi e io risposi che ero colui che aveva organizzato il suo viaggio in Ticino. Disse “siediti!”. Gli chiesi allora della prigione, che sapevo aver sperimentato; lui, come un nonno al nipotino, disse: “Anche nei momenti più bui, non perdere mai la tua dignità. In prigione, ogni mattina, mi alzavo e mi radevo”. Poi un cameriere arrivò con in mano una radio, dalla quale giungevano notizie inquietanti che parlavano della P2 e l’incontro terminò». Il presidente partigiano ascoltò la radio, chiamò a raccolta i suoi, si diresse all’Ospedale Italiano, tappa prevista dal protocollo «e poi subito via, destinazione Malpensa». Solari si commuove meno, invece, per un altro presidente, pur ammirandone le altissime qualità di statista. Locarno, 1985: «Cossiga, allora ministro degli Interni, pernottava al La Palma; il programma prevedeva la messa alla Madonna del Sasso. All’arrivo trovammo un gruppo di emigrati che lo aveva atteso per ore. Lo chiamarono ad alta voce, ma lui, forse distratto, non si avvicinò a loro».

Il Papa testimonial e la tristezza dei re

L’Ett fu all’origine dei collegamenti aerei con Agno. «Nel 1984 eravamo i promotori dell’allora Crossair – spiega Solari – che proprio in quei giorni introduceva i nuovi Saab 340 (per gli appassionati del volo: bimotore turboelica prodotto dall’azienda svedese fino al 2005, ndr). Nel Cda della Crossair c’era qualcuno con buoni legami con l’Opus Dei, così riuscimmo a portare il Papa a Zurigo e poi, con aereo trasformato – estraendo un sedile di prima classe da uno degli aerei dell’allora Swissair, fissato sul pavimento del bimotore – Giovanni Paolo II fece scalo a Lugano». Il Papa che arriva dall’alto, sul Saab 340 nuovo di pacca: «Forse è l’operazione di marketing più riuscita dell’Ente Ticinese per il Turismo».

Dai religiosi passiamo alle teste coronate, per le quali Solari cita Hans Heinrich Thyssen-Bornemisza de Kászon, più brevemente noto come barone Thyssen. «Si affezionò a me, nonostante la differenza d’età, anche se temo che il motivo fosse anche che forse gli piaceva un po’ mia moglie». A Villa Favorita, residenza del barone a Castagnola, si svolge l’incontro con la principessa Margaret, contessa di Snowdon, sorella minore di Elisabetta, fumatrice accanita, figura non meno scomoda di Lady D. per l’essersi innamorata di un capitano dell’esercito divorziato, che avrebbe anche sposato se non si fosse opposta la Chiesa d’Inghilterra: «Dopo avere preso confidenza, mi disse come sarebbe stato bello poter visitare il Ticino. Io proposi una ‘fuitina’. Dissi: “Perché domani non facciamo un giro a Lugano?». E sul volto di Margaret apparve «un velo di profonda tristezza», sintetizzato da «lei non sa cos’è la nostra vita. E io capii. Nulla poteva uscire dal protocollo». E così sarebbe stato per il Principe Carlo, atterrato anni dopo ad Agno (senza Diana) e preceduto dal reale staff, prodigo di suggerimenti (imposizioni) sul come approcciarsi al reale primogenito: «Mi dissero che non avrei mai dovuto rivolgergli la parola se non fosse stato lui a rivolgermela per primo. Da buon repubblicano, pensai: col cavolo!». E così, ad atterraggio avvenuto, col principe alla guida di un BA 146, aereo di linea regionale britannico, «gli dissi “Vedo che ha pilotato lei: che bell’atteraggio!”. Lui, riferendosi alle montagne, si sciolse dicendo “Ma questa non è aviazione, è alpinismo!”».

La tristezza delle teste coronate è anche quella di Don Juan de Borbone, padre di Re Juan Carlos di Spagna e impedito da Franco a divenire re: «“Beati i popoli che non conoscono la dittatura”, mi disse davanti a una finestra di Villa Favorita».

Dal tovagliolo al ciak

Il fiume di ricordi, che è lungo come quello degli incontri, passa dalle parti del Settecentesimo, quando nel 1991 – per decisione del consigliere federale Jean-Pascal Delamuraz, «grande uomo di Stato» – a Solari fu imposto di celebrare la ricorrenza nell’impossibilità di disporre, per decisione popolare, di strutture fisse. «Con l’amico Mario Botta ne discutemmo a cena. Pensammo allora a una tenda, che non è una struttura fissa. Mario tirò fuori il tovagliolo bianco, prese un pennarello e disegnò sul tovagliolo quel che aveva in testa». Il reperto esiste ancora. Il Canton Ticino contribuì per un terzo; gli altri due terzi arrivarono dal Nicolas Hayek, Mister Swatch, e dalle milleduecento sedie di Botta, disegnate e fabbricate per l’occasione e vendute a 700 franchi. «Fu come delegato che imparai a conoscere la diversità della Svizzera, di Uri da Ginevra. Lì ho imparato che la Svizzera è una sola cosa, che è un capolavoro di equilibrio nato da una diversità incredibile, tenuta insieme da una cultura politica che è basata su valori come democrazia, spirito repubblicano, rispetto del singolo, federalismo, ma anche su simmetrie fondamentali tra lingue, religioni, sui rapporti montagna-pianura, città-campagna, sottili ma fondamentali equilibri».

Venendo al 2000, al Festival. Si cercava la persona che lo prendesse in mano, e chiesero a me. Pretesi mano libera, promettendo impegno e rigore». E anche quando si parla di Locarno Festival, gli incontri si sprecano. «Dario Fo, mai vista una persona più nervosa prima di salire sul palco, ma in una decina di secondi aveva in mano 8mila persone, inquietante»; «i sei minuti in lingua inglese di Harry Belafonte, che parlò della responsabilità dell’artista di dire tutto quel che ha dentro anche a costo di farsi dei nemici»; «la bellezza di Claudia Cardinale, che mi disse “Ho in faccia mille rughe, ma sapessi quanto mi è costata ognuna di esse” e Michel Piccoli, per la profondità del quale rimandai la cena con gli ospiti dei nostri sponsor». Oppure Abel Ferrara, «che arrivò con la chitarra, scatenandosi sotto la pioggia, portando dopo mezzanotte l’entusiasmo anche in Rotonda. Lui, a mio parere, rappresenta il miracolo del Locarno Festival, posto in cui l’artista riesce ad avere il contatto con la piazza, cercando anche le persone che la popolano. A Cannes è impossibile, si viene catturati per essere riportati nell’albergo di lusso. Questo, invece, è il bello del nostro festival, oltre alla libertà artistica, l’indipendenza politica e il suo grande e meraviglioso pubblico».

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