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Beata anarchia di Simone Pellegrini

Dal 20 luglio al 29 novembre al Musec, ‘Una geografia anarchica’, 12 cartografie dell’immaginario per la prima personale svizzera dell’artista italiano

L’artista nella sua casa-studio di Bologna
(S. Pellegrini)
19 luglio 2023
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Ancora un colorato catalogo 30x30 (cm) per il nuovo capitolo (il terzo) del progetto ‘Global Aesthetics’ firmato Musec. Dal giorno 20 di questo caldo fine luglio che pare dare tregua, fino al prossimo 29 novembre, Paolo Francesco Campione e Nora Segreto, rispettivamente direttore e ricercatrice del Museo delle Culture di Lugano, hanno curato la ‘Geografia anarchica’ di Simone Pellegrini, indagine pittorica rappresentata da dodici opere di medie e grandi dimensioni realizzate dal 2007 al 2022, ospitate al fresco dello Spazio Maraini. Classe 1972, marchigiano d’origine, Pellegrini si è formato artisticamente a Urbino, ma gli scatti di questa pagina lo ritraggono nella sua casa-studio di Bologna, città nella quale vive e insegna pittura, nella locale Accademia delle Belle Arti.

Prima di ripoggiare lo sguardo sulle sue cartografie e interrogarci e interrogare sul/il suo nuovo alfabeto di forme e segni, rubiamo parole a Nora Segreto per riassumere il concetto di ‘Geografia anarchica’: «Con questo titolo abbiamo voluto sottolineare quanto il gesto, il processo creativo, i segni di Pellegrini siano manifestazione della libertà dell’artista che lotta contro convenzioni che ribalta». E oggetto del ribaltamento in lui è tutto, dal supporto sul quale l’azione si svolge all’azione stessa, fino ai titoli delle opere, che sono neologismi, garbugli di parole, accostamenti di sillabe, scrittura creativa che si aggiunge alla creazione complessiva e ne diventa parte. L’anarchia, naturalmente, si estende alle forme rappresentate, identificabili per il tempo necessario a non identificarle più, perché incomplete, incompiute, temporanee, mutanti per genesi, o rese tali dal contesto.


© Simone Pellegrini
Sponda, monda serva, 93x167 cm, 2021

A me gli occhi

Andando per ordine. L’unicità dell’opera di Pellegrini inizia dai frammenti di carta da spolvero (quella ‘grezza’ del disegno tecnico e artistico, no pregiature, no finezze, no Hahnemühle) ricomposti a strati utilizzando la colla vinilica; i bordi irregolari, l’ombra prodotta sulla superficie ospitante e una cornice nera ne fanno elemento distintivo. Le forme rappresentate giungono su siffatta e atipica ‘tela’ senza che l’artista entri mai in contatto con essa, ovvero tramite matrici cartacee da lui realizzate, disegnate a carboncino, colorate con pigmento e unte a olio per consentirne la trasposizione. E le forme sono pseudo-organismi cellulari, iconografia mistica, creature antropomorfe, segni primitivi e altre visioni. Ecco, pertanto, che nello smarrimento iniziale rosso-ocra-nero carbone che in un posto come il Musec produce (in noi) un primo abbaglio africano, ogni minuto in più trascorso nello Spazio Maraini è tempo di fermentazione delle singole cartografie, che regalano significati del tutto personali, scopo dichiarato del Pellegrini. Motivo per il quale la suggestione africana si trasforma in breve tempo nel girone dantesco che evoca (sempre in noi) ‘Sigizia’ (2007), e l’affollamento di forme in ‘Condizione di fondo’ (2017) ci proietta invece in un’antica tavola di anatomia, mentre ‘Trame’ (2013) pare da subito pura iconografia sci-fi. Ci teniamo, perché l’effetto non se ne va, l’Africa vista anche in ‘Setsa farsía’ (2022), ma tornando con lo sguardo a essa, prima di andarcene, potrebbe pure essere geroglifico o sudamerica. Il vaso di Pandora è aperto, è un tutto contro tutti. Forse è un tana libera tutti.


© Simone Pellegrini
Setsa farsía, 144x375 cm, 2022

Scomunicare

L’anarchia di Pellegrini qui rappresentata nasce sui frontespizi dei testi che egli sceglie come oggetti di studio, che ospitano bozzetti realizzati a matita che diventeranno poi matrici. «Il mio legame con la parola è molto forte», spiega l’artista nella breve visita guidata per la quale ha voluto riservare le sue, di parole, partendo dal rapporto con esse per arrivare al senso del suo fare arte: «Non voglio scrivere manifesti – spiega – ma credo che ogni artista, a un certo punto della sua attività, debba rompere il legame con la lingua per avventurarsi nella costruzione di un linguaggio, supponendo che occorra sempre un nuovo linguaggio per dire cose altre o altre cose».

Pellegrini respinge l’idea che un’opera d’arte sia un modo di comunicare, semmai il contrario: «È il segno certo che è avvenuta una sorta di scomunica, di divorzio, quello di chi si avventura per costruire qualcosa di nuovo e che non è realizzabile se non divorziando dalla società, dalla lingua. Ricuso anche il fatto che un’opera possa servire alla comunicazione o, ancor peggio, all’informazione». In nome della libertà di cui sopra, «la mia (di libertà, ndr) non è uno status quo ma un movimento, e le opere sono sempre un liberarsi. Ogni segno si libera da qualcosa, si allontana da qualcosa. Ogni segno, nel mio caso, si allontana da un significato».


© Simone Pellegrini
Accinti affronti, 91x192 cm, 2021

La cassetta degli attrezzi

In nome, di nuovo, della libertà di cui sopra, «ogni volta che ognuno di noi decide di avventurarsi in un territorio più o meno ignoto, sceglie di mettere mano comunque alla propria cassetta degli attrezzi, a ciò che uno sa, pensa di sapere, ha saputo, ha intuito. Avvenutrarsi in questi deserti dell’immaginazione significa per me semplicemente accettare di non sapere. È solo a partire da questo tipo di accettazione che si può eventualmente fare un’esperienza, che io credo non abbia mai nulla a che vedere con quel che abbiamo già saputo, bensì con quanto sapremo, con quanto saremo in grado di comprometterci all’interno di un viaggio». E il suo livello di compromissione, dice, è sempre più elevato: «La questione dell’arte è semplice e spinosa al tempo stesso. Si comincia sempre per gioco, perché hai una buona mano, un buon polso e poi la cosa ti attira a sé e diventa il tuo destino. Per me non c’è miglior modo di incarnare questo destino che accettare di avere a che fare con una sorta di incognito, di non saputo». Pertanto: «Se qualcuno di voi dovesse decidere di avventurarsi in questo campo, consiglio di non mai mettere mano alla sua cassetta degli attrezzi».

Forse è qui che sta la risposta alle nostre visioni plurime: «Per molto tempo – prosegue Pellegrini – ho pensato che fare un’opera significasse avere a che fare con cose che sono nei paraggi del sapere, dei significati. Ho fatto molta resistenza a far sì che in queste opere potessero entrare elementi che un significato non l’avevano, in quanto aborti formali, forme in fieri, e invece ho capito che una delle cose più coraggiose che mi sia mai capitato di fare è stato acconsentire all’entrata di cose di cui non sapevo nulla, il poter rinunciare definitivamente al fatto che l’opera dovesse necessariamente essere legata a un sapere, in luogo della possibilità che rappresentasse un non sapere, o un non sapere ancora, che fosse l’indice impreciso di un allontanamento, e questo allontanarsi non è qualcosa che può accadere all’interno di un legame».

C’è fascino aggiunto nelle cartografie di Pellegrini. Ogni matrice – e il Musec ne ospita in discreta quantità, ai piedi di una delle opere – produce un segno unico e irripetibile. I segni possono ripetersi in opere diverse, ma non sono mai gli stessi. Una volta impressa, l’immagine scarica immediatamente e definitivamente i suoi pigmenti. «Ogni matrice ha figliato una volta sola», chiude l’artista. «È il motivo per il quale il mio studio è un purgatorio di carte come queste».


S. Pellegrini
Le matrici (dettaglio dello studio)

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