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Filipe Branquinho, nient'altro che la verità

Tradizione e contemporaneità, e la satira come denuncia: al Museo delle Culture, l’artista mozambicano indaga politica e società (non solo mozambicane)

Filipe Branquinho, Flying Thief, 2021
(©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project)
30 giugno 2023
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È il secondo capitolo del progetto Global Aesthetics del Musec. Dopo gli occhialoni di Attasit Pokpong, dopo la Thailandia, è la volta del Mozambico, fino al 5 novembre. È l’indagine artistica di Felipe Branquinho, mozambicano classe 1977, che tocca la società e la politica del suo Paese, le usanze, i miti popolari e le molte contraddizioni. Le tecniche miste utilizzate (su carta cotone e fotografia) includono anche l’ironia, colpi bene assestati di satira che diventa confronto, denuncia. Parte integrante sono anche le maschere tradizionali makipo dei Makonde, etnia del Mozambico settentrionale, fotografate per dare vita a ‘Lipiko’, per esempio, rappresentazione senza filtri del vuoto socio-politico mozambicano, dalle tonalità particolarmente svizzere...


©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project
A frota (The Fleet), 2022

‘Thuna Bond’

Tra il 2013 e il 2014, in Mozambico comincia a prendere forma lo scandalo dei ‘Thuna Bond’, due miliardi di dollari destinati a finanziare progetti di sviluppo legati alla pesca del tonno finiti in parte nelle tasche di tre ex dipendenti del (fu) Credit Suisse, in quelle dell’ex ministro delle Finanze del Mozambico e altri funzionari. Branquinho ne ha fatta la sintesi in lavori che uniscono tecnica fotografica e pittorica, dando alla luce pesci coloratissimi (il ‘Flying Thief’, il ladro volante che apre la mostra), ma anche rotondi uomini di potere, dai volti sostituiti da maschere makipo, che li rendono al tempo stesso buffi e repellenti.


©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project
Os três arguidos (The Three Defendants), 2019

«Ho presentato questo lavoro alla Biennale di Venezia nel 2019», racconta l’artista nella breve visita guidata; «Per esporre nel padiglione del Mozambico c’era la necessità dell’approvazione del governo; la abbiamo avuta, le opere sono state mostrate e tutti si sono sentiti orgogliosi. Un ministro si è pure riconosciuto in uno dei personaggi. È bene dire che non tutti sono stati travolti dallo scandalo; una parte seppur minima del denaro è arrivata ai veri beneficiari». Alla domanda se si senta sicuro nel denunciare il malaffare senza sottotesti, Branquinho ci risponde: «In Mozambico c’è libertà di parola, sempre se non fai troppo rumore. Spero di continuare a godere di questa chance». Quanto al tema di ‘Lipiko’, e alla sua prima Svizzera: «Se non è sentirsi sicuri questo…».

Prima della proiezione del corto di Martina Margaux Cozzi, integrato alla mostra, Kristian Khachatourian – curatore della personale insieme a Lidija Kostic Khachatourian – porta il discorso in ambiti più generali: «La pressione dei governi sugli artisti africani non è mai troppo intensa, perché i governanti considerano l’arte marginale e ne ridimensionano costantemente il potere. Negli anni, abbiamo cercato di creare occasioni di libertà per gli artisti africani, pur consci dell’esistenza di un limite oltre il quale nascono i guai».


©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project
In Gold We Trust, 2019

Dollaroni e bestie

Le ideali tre stanze abitate da Branquinho – cognome portoghese di “un artista bianco in un mondo nero” (Paolo Campione, dall’incontro di presentazione della mostra) – continuano con lo sberleffo ‘In Gold We Trust’, che parafrasando il dollarone statunitense mette alla berlina il Mozambico che baratta i propri valori con l’industria del lusso, e i suddetti dollaroni diventano origami scansionati dall’autore e poi sovrapposti alla tela, vuoi in forma di pochette, di gioielleria, vuoi al centro di un trionfo di loghi di multinazionali della moda disposti a creare pattern, a far da sfondo alla fame di status symbol di buffi, provocanti, grotteschi protagonisti.

Chiude il percorso espositivo il ‘Bestiarium’, il Branquinho pandemico delle figure umane col volto coperto da maschere zoomorfe, strumento d’indagine sulla tanto anelata ‘nuova normalità’ che, davanti agli scatti esposti, fa intravvedere la bestia che è in noi.


©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project
Bestia XVII, 2021

L’intervista

‘L’Africa preferita è quella che non offende’

C’è sempre un punto di vista politico, sociale ed economico in quanto è dato di vedere a Lugano, in quella che per disponibilità di spazio non può essere una retrospettiva, ma per contenuto basta e avanza. Verso l’Africa Branquinho ha uno slancio che definisce «documentaristico», e ce lo spiega in separata sede: «Lo slancio è verso quella post-coloniale, perché l’immagine preferita dell’Africa è sempre quella di un luogo esotico che non ‘offende’ nessuno. Questo per dire che, in genere, l’arte africana e i suoi artisti sono scelti da europei che vogliono l’aspetto esotico, quello che li possa far sentire non colpevoli. Io provo a mostrare che i problemi esistono, ma che c’è anche dignità».

Nella sua arte di denuncia, quanto conta l’essere nato in una famiglia di giornalisti?

Il giornalista era mio padre, che ora non c’è più. Mia madre è una documentarista, è solita lavorare con gli archivi, anche museali. Di certo ha aiutato, ma sono nato nel 1977, due anni dopo che il Mozambico ha raggiunto l’indipendenza, e la mia infanzia è trascorsa tra fotogiornalismo e tematiche politiche legate alla costruzione di una nuova nazione. Se fossi nato in un altro posto del mondo, probabilmente avrei sposato l’astrattismo. C’entra la mia formazione, come detto, c’entrano i miei studi di architettura e l’aver cominciato come fotografo per i quotidiani, su commissione. La fotografia è un modo per ritrarre i problemi di una nazione, anche quelli meno visibili, e dare dignità alle cose.

Com’è, nell’arte e nella vita quotidiana, essere un mozambicano bianco in una nazione nera, dal passato coloniale?

Non sono cresciuto con questa distinzione, e il mio non è un volermi allontanare dalla risposta. Il Mozambico è diverso da altre realtà africane, dal Sud Africa, per esempio. Da noi la componente bianca della popolazione è piccola. Quella mozambicana è una società che può avere i suoi problemi razziali, sì, ma non una nazione razzista.

La sua relazione con il Portogallo?

La prima volta che l’ho visitato mi è stato chiaro che per quanto io possa avere ricevuto influenze culturali, non sono mai stato portoghese. Sono nato e cresciuto in Mozambico, ho studiato in scuole pubbliche mozambicane, non ho bisogno di autorizzazioni per sentirmi mozambicano.

Anche la satira è arte?

La satira è una modalità efficace di denuncia. Penso al cinema italiano, che è riuscito a raccontare problematiche importanti col sorriso. Se sei troppo drammatico, lo spettatore potrebbe non uscire dalla sala accresciuto, ma con il desiderio di togliersi dalla testa ciò che ha appena visto. Mi colpisce sempre la leggerezza in alcune riviste satiriche europee. La satira è arte che presuppone una certa intelligenza, la vedo in molti comici. E di norma, i comici sono persone molto intelligenti.


©2023 Filipe Branquinho/AKKA Project
A Lugano fino al 5 novembre. Qui, nel suo studio di Madrid

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