Mostra

Gli atelier di Rossi, crocicchio culturale

Nato su impulso dell’artista Jean Arp, il complesso ai Saleggi (che verrà ristrutturato) ha un significato profondo per la storia artistica del Cantone

Una foto degli atelier di Remo Rossi aperti fra la fine degli anni Cinquanta e il 1978, anno della buzza che li distrusse
(Fondazione Remo Rossi)
16 dicembre 2022
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‘Gli atelier di Remo Rossi. Un luogo di creazione artistica e di interscambio culturale’ è il titolo della mostra (inaugurata oggi) che la Fondazione Remo Rossi di Locarno ha allestito nella sua sede in via Rusca 8. Il titolo è eloquente e contiene in nuce l’essenziale. L’allestimento di quegli spazi nella fine degli anni Cinquanta non è stato solo una questione materiale, costruttiva. Bensì, i laboratori nel quartiere Saleggi hanno rappresentato per la storia artistica cantonale un punto di svolta.

La mostra in corso si inserisce nel più ampio progetto di ristrutturazione del complesso degli atelier, per cui la Fondazione ha indetto un concorso d’architettura in occasione dei quarant’anni dalla morte dello scultore locarnese, nato il 27 settembre 1909 e morto il 30 dicembre 1982. A questa importante iniziativa ha fatto seguito l’organizzazione dell’esposizione, che ha come intento dare risalto all’opera maggiore di Rossi – che, scritto per inciso, ha realizzato la statuetta del Pardo per il Locarno Film Festival –, ovvero il complesso di atelier, un "crocevia di arte e cultura".

Cambio di paradigma

«L’operato di Remo Rossi permise un cambio di paradigma importante», spiega il critico d’arte Claudio Guarda, cui abbiamo chiesto aiuto per meglio capire la portata per la storia dell’arte ticinese sia del ruolo di Rossi, sia della funzione dei suoi atelier, quale vettore artistico non solo regionale. Il critico d’arte, lo scriviamo subito, è autore dello studio storico ‘Gli atelier di Remo Rossi. Un importante momento della storia artistica locarnese e cantonale’, commissionato dalla Fondazione e pubblicato nel catalogo che accompagna la mostra.

Guarda comincia con una premessa imprescindibile che tira in ballo l’artista Hans ‘Jean’ Arp. «È lui che sollecitò gli atelier a Remo Rossi, perché intendeva trasferirsi in Ticino stabilmente», dove aveva già fatto periodiche scorribande al Monte Verità fra il 1915 e il 1917 e dove ha continuato a tornare negli anni successivi. La facciamo breve. Nella regione, però, Arp non aveva uno spazio adeguato per poter lavorare: chiese allora aiuto «allo scultore locarnese più famoso in quegli anni», conosciuto nell’ambito della Biennale d’arte di Venezia, nel 1954. Nel ’59 Rossi partì con la prima ristrutturazione e mise alcuni spazi a disposizione. La voce si diffuse e dopo l’artista natio di Strasburgo, altri si fecero avanti come Hans Richter, Italo Valenti, Ingeborg Lüscher, Gudrun Müller e altri ancora che passeranno per i Saleggi nel corso di un ventennio (fino al ’78, anno della buzza che distrusse parte delle strutture, nonché molti documenti). Attorno al complesso di laboratori si crea «una variegata colonia di artisti, che portarono fervore».

Quegli spazi hanno per la storia artistica cantonale significati molto importanti: «Rappresentano, in primo luogo, la fine di un contenzioso che ha segnato a lungo la storia artistica del Ticino, cioè la questione identitaria acuitasi negli anni Venti con la "tedeschizzazione" del Cantone, anche artistico-culturale. Gli intellettuali locali rifiutavano questo fenomeno, visto come una minaccia incombente». Basti pensare a Pietro Chiesa che si era prefissato di fare del Museo di Lugano il tempio dell’arte ticinese. Gli atelier funzionarono da spartiacque e «sancirono il passaggio dal rifiuto di quella cultura venuta dal Nord all’accettazione. È un rovesciamento di prospettive che porta con sé anche un significato sociologico e simbolico: l’allargamento degli orizzonti». Gli atelier ai Saleggi hanno fatto quindi da ponte fra un Ticino del 1920 a un Ticino degli anni Cinquanta.

Sul piano personale nella storia degli atelier si legge anche quella di Remo Rossi, che iniziò a lavorare in una bottega di marmorini, andando quindi in accademia e aprendosi poi all’internazionalità. Una vicenda emblematica in cui si riflette quella di un intero cantone, come scritto in precedenza.

In conclusione, «non si può non parlare del frutto più prezioso di tutto ciò, vale a dire il museo d’arte moderna di Locarno al Castello (inaugurato nel 1965), il terzo polo dei musei in Ticino», che ha colmato, nelle intenzioni di Rossi, «il divario cronologico fra i musei di Lugano e Ascona. Remo Rossi si trasforma così in operatore culturale».

Un innovativo progetto comunitario

La mostra inaugurata ieri espone una trentina di opere fra dipinti, disegni e sculture di artisti quali Jean Arp, Otto Charles Bänninger, Emilio Maria Beretta, Max Bill, Jules Bissier, Serge Brignoni, Daniele Buzzi, Fritz Glarner, Ingeborg Lüscher, Alberto Magnelli, Gudrun Müller-Poeschmann, Jakob Probst, Germaine Richier, Hans Richter, Italo Valenti; opere appartenenti alla collezione privata di Rossi. A quelle se ne affiancano altre sette realizzate da alcuni degli artisti che si sono succeduti in quarant’anni negli atelier: Pedro Pedrazzini, Marco Gurtner, Manlio Monti, Lorenzo Salvadori, Reto Rigassi, Bernard Struchen e Fausto Tommasina, che "attestano la continuità dell’innovativo progetto comunitario di Rossi, incentrato sul dialogo costruttivo tra arte e cultura", si legge nella presentazione.

L’esposizione è visitabile fino al 22 aprile 2023 (www.fondazioneremorossi.ch).

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