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La nomina del nuovo Vescovo? ‘È ora di un cambio di passo’

Naufragata, e perlopiù criticata, la petizione per cancellare la norma del ressortissants tessinois, la Curia pare immobile: le voci del... coro

Chi il prossimo?
(Ti-Press)
21 giugno 2023
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Era il 24 ottobre quando monsignor Valerio Lazzeri annunciava, dopo nove anni, il suo passo indietro. Fra una manciata di giorni saranno otto mesi da quelle dimissioni, neppure troppo inaspettate. Quel lunedì mattina era già pronto, perlomeno ad interim, il suo sostituto, l'amministratore apostolico Alain de Raemy. Una Curia ticinese che, nel frattempo, ha visto passare svariati rumor e una petizione, sulla via del naufragio, desiderosa di mettere mano alla convenzione tra Consiglio federale e Santa Sede del 4 luglio 1968 contenente una clausola risalente a ottant’anni prima secondo la quale il Vescovo di Lugano deve essere scelto tra “sacerdoti cittadini ticinesi” (nel testo originale in francese la formula è “ressortissants tessinois”). Promotori, ci dicono gli esperti della materia, «che hanno dimostrato di non conoscere la storia, tanto che il Consiglio di Stato, ribadendo la sua ‘neutralità’ ha risposto in modo perfetto».

Da parte sua, a Roma, Papa Francesco, fra acciacchi e faide interne al Vaticano, ha certamente ben altro a cui pensare. Una scrivania stracolma che porta, in particolare in Italia ma anche in altre nazioni, e dunque Svizzera compresa, a dilatarsi molto di più, rispetto ad altri periodi storici precedenti, il periodo per la nomina dei vescovi.

La sede vacante

Otto mesi dalle dimissioni di Lazzeri

Un’attesa che in Ticino, lo abbiamo appurato sollecitando i preti che qui operano, comincia a pesare. L’atmofera ingessata di una sede vacante porta a sentirsi «più soli», «persi». Ce lo ha confessato un sacerdote del Sottoceneri: «La procedura per la nomina del nuovo vescovo di Lugano dura ormai da otto mesi (un tempo forse già troppo lungo) ed è avvolta dal più fitto riserbo. Meglio così, dal momento che esso protegge da speculazioni tutti i possibili candidati. Ma forse è ora di un cambio di passo – evidenzia in quella che è una riflessione molto pertinente e condivisa da molti –. Come ha influito la raccolta di firme? La Santa Sede poteva forse ignorarla e procedere; forse invece ha voluto attendere, per riguardo alla realtà politica locale. Se ritiene che la questione sia chiarita, l’iter potrebbe accelerarsi, a meno che non vi siano altri ostacoli emersi all’interno della realtà ecclesiale (criticità) ancora al vaglio dei superiori. In sintesi, un vescovo di nome e di fatto sarà probabilmente scelto secondo le norme in vigore; un “non ticinese” potrebbe comunque essere nominato col titolo di amministratore apostolico, in modo stabile e con tutti i poteri necessari alla funzione episcopale, come già furono i pastori diocesani fino a monsignor Martinoli compreso. Certo che se si attende un candidato ideale, non lo troveremo mai. Se si attende un fratello, certamente i nomi non mancano. Se si vuole qualcuno che non crei problemi, lo si troverà. Se è auspicato qualcuno che contribuisca a nuove dinamiche, anche. E infine resta l’incognita delle personalità ecclesiastiche internazionali con agganci in Ticino, che possono influire almeno sulla fase finale della procedura (spinte o veti). Se si tarda ancora, è forse segno che qualcuno di loro si stia interessando un po’ troppo al Ticino».

Il sassolino

A lanciare il sasso nello stagno, in questi ultimi giorni, è stato don Giorgio Paximadi, co-parroco alla chiesa di santa Maria degli Angeli di Lugano. Sui canali social ha riportato con estrema lucidità una lettura di quella che pare un’impasse: “Triste vedere che sia il Governo di uno Stato laico come il Canton Ticino a dover rivendicare il diritto della Chiesa di organizzarsi liberamente e debba sottolineare che qualsiasi intervento normativo debba partire da ‘una volontà chiara espressa dalle istituzioni della Diocesi’ – si legge nel post –. Non si tratta della ‘decisione di non decidere’, ma semplicemente della constatazione che coloro che possono decidere, o proporre una decisione a chi può prenderla, ossia la Diocesi, il suo vescovo, e i suoi organismi istituzionali sono attualmente paralizzati o inesistenti a causa del necessario rispetto della norma canonica che dice ‘sede vacante nihil innovetur’ (sede vacante nulla di nuovo, Ndr)”.

Quelle voglie giuseppinistiche

Per don Paximadi “il Consiglio di Stato si è mosso non solo nella perfetta osservanza delle norme costituzionali, ma, e questo è paradossale, anche delle norme ecclesiastiche – non manca di annotare il prelato –. Stupisce poi che i promotori di una simile intempestiva proposta affermino che la decisione fosse in capo all’autorità civile e alla Santa Sede, perché la Diocesi non ha ‘alcun potere in materia’. Che in un’epoca in cui non si fa altro che parlare di sinodalità, si dica a una Chiesa ‘fatti da parte perché tu devi solo tacere’, e ciò per bocca di persone che si possono definire ‘laici impegnati’, lascia basiti. Il clero, nella stragrande maggioranza, è contrario a un’iniziativa attuata con così tanta fretta, e in molti altri ambienti ecclesiali la cosa è stata accolta con malumore ed è fortemente controversa. La raccolta di un paio di migliaia di firme in una Diocesi come la nostra non è stata poi un plebiscito, ma l’osservazione più grave porta a chiedersi se sia stile ecclesiale corretto proibire per principio il diritto di intervento a chi è direttamente interessato e riservare la discussione, con voglie giuseppinistiche (ovvero volte a ridimensionare l'autorità della Chiesa cattolica, Ndr) a istanze superiori. È veramente questo un metodo elvetico? Il problema politico tuttavia verosimilmente esiste, ma non coinvolge consiglieri di Stato o partiti politici; a mio avviso è squisitamente intraecclesiale. Come già era stato ipotizzato dal vescovo emerito, monsignor Grampa, qualche tempo fa, riguarda il desiderio di qualcuno di bloccare candidature sgradite”.

Osservazioni fuori dai denti che fa uscire allo scoperto don Simone Bernasconi, rettore del santuario di Morbio Inferiore: «La coperta della Diocesi è sempre più corta, preti ticinesi oriundi siamo sempre di meno... Questa clausola del resto dice tutto e dice niente, anche perché, a mio avviso, potrebbe indicare unicamente solo chi veramente è nato e cresciuto qui. Il cambiamento dunque potrebbe coinvolgere anche quanti, pensiamo agli italiani o ai polacchi, operano in Ticino da anni, che si sono inseriti bene nel territorio e nella comunità, si sono inculturati e vivono le nostre tradizioni – esprime uno scenario possibile don Simone –. Raccolta firme? Un buco nell’acqua per non dire un pugno di mosche... Non ci si muove a partita iniziata, al di là del fatto che, ma non vorrei entrare in politica, è stata avviata nel corso di una campagna elettorale dove qualcuno figurava anche in lista. Mi pare che fra Stato e Chiesa, come spesso fra Parrocchia e Curia, si giochi un po’ a ping pong. So bene che non si possono accontentare tutti ma ci dev’essere qualcuno che, bene o male, prenda una decisione. Certo il vescovo ideale non esiste, ma abbiamo bisogno di qualcuno che sappia programmare la diocesi con lungimiranza, che creda ancora nel messaggio prima sacerdotale e poi episcopale e non lo faccia perché è stato chiamato a farlo perché altrimenti è meglio che cambi... mestiere. Terzo, importante, che sia vicino ai preti, che sappia ascoltare i loro problemi, le loro titubanze e soddisfazioni, le loro questioni amministrative, anche con una telefonata magari per gli auguri di buon compleanno ma soprattutto con incontri personali! Quando un prete sta bene al suo posto, sta bene lui e sta bene la sua gente. E questo vale anche per il vescovo».

Una Chiesa debole

Che la posizione di Paximadi abbia sfondato porte aperte lo conferma un altro prete, attivo nel Luganese: «È così, e dico di più, ci sono altri, fuori dalla Chiesa, che la pensano in questo modo. Il vero problema è che la Chiesa è in un momento di grande debolezza e la sua voce si sta spegnendo, perché ormai allineata al coro. Una voce che se si configura così non serve più, vedi omelia dell’arcivescovo Delpini al funerale di Berlusconi… se quell’omelia l’avesse pronunciata il presidente Mattarella sarebbe stato uguale... C’è bisogno di mostrare una nuova via e non solo di polemizzare con quella che, in modo silente, tutti ormai si sono rassegnati a percorrere. Il Signore prepara e forgia piano piano i suoi progetti. E io, per grazia di Dio, ho la pazienza di aspettare».

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