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Uno studio sui salari ticinesi, i più bassi in Svizzera

Un'analisi dell'Ustat aiuta a capire chi è più vulnerabile e come è cambiata la situazione nell'ultimo decennio

(Ti-Press)
26 settembre 2020
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Il Ticino è da tempo il cantone svizzero coi salari più bassi, questo lo sanno anche i muri. Ma al di là delle politiche economiche e del contesto regionale e globale, quali fattori spiegano l’evoluzione – o l’involuzione: -1,9% sul valore mediano dal 2016 al 2018 – degli stipendi? E soprattutto: chi soffre di più? Per capirlo torna utile un recente studio dell’Ufficio di statistica (Ustat) che scompone un decennio di dati. E trova alcuni segnali di tendenza: i frontalieri ad esempio restano sottopagati anche a parità di mansione, mentre le donne iniziano sì a guadagnare di più, ma il loro salario resta comunque sensibilmente inferiore a quello degli uomini, soprattutto quando si tratta di posizioni manageriali.

Ma prima, i numeri. Dal 2008 al 2018 il salario mediano lordo standardizzato – in pratica, la paga mensile del singolo lavoratore ‘nel mezzo’ della scala retributiva, calcolato per un tempo pieno – ha registrato un aumento del 4,6% (229 franchi), contro il 7,8% (452) a livello svizzero. Il periodo 2016-2018 ha però visto un rallentamento generale, che in Ticino si è tradotto addirittura in una contrazione (-1,9%, ovvero 99 franchi). Nel 2018 metà dei salariati in Ticino guadagnava meno di 5.163 franchi, ovvero quanto percepito dal 25% più ‘povero’ degli zurighesi. Le paghe più alte si percepiscono nelle banche, nelle assicurazioni e nelle attività di fornitura di energia. Male invece il settore “alloggio e ristorazione”, fermo a 4.024 franchi. Nel secondario si distingue in positivo il settore delle costruzioni, nel quale “grazie anche a contratti collettivi radicati da anni, il 75% dei dipendenti guadagna più di 5.271 franchi”.

C'è aumento e aumento

Una volta fotografata la situazione, i ricercatori Maurizio Bigotta e Vincenza Giancone vanno a ricostruire la storia del decennio 2008-2018 con il metodo del ‘coarsened exact matching’ (letteralmente, ‘corrispondenza esatta grezza’): in pratica si va a vedere come cambiano i salari a parità di tutte le altre condizioni: genere, età, formazione, mestiere e settore. Si vede così che in dieci anni solo 137 franchi dell’aumento mediano registrato non dipendono da cambi nella struttura dei lavoratori (com’è invece il caso, ad esempio, quando aumenta il livello formativo generale). Minimo, quindi, è l’aumento determinato da fattori quali l’andamento dell’economia, nuovi contratti o altre variabili.

Donne e frontalieri penalizzati

Le donne guadagnano ancora 1000 franchi meno degli uomini, una differenza spiegata solo a metà dal fatto di occupare lavori diversi: un quadro che lascia intuire il persistere di discriminazioni. Tuttavia la mediana del salario lordo mensile “segna un aumento sia per le donne sia per gli uomini, anche se per le prime il cambiamento risulta più alto” (+8,4%). Il miglioramento della condizione femminile dipende soprattutto dall’ingresso in ambiti professionali pagati meglio, grazie anche a un sensibile aumento del livello d’istruzione (oggi ha una formazione terziaria il 27,3% delle donne, contro il 18,2% del 2008). Ma questa evoluzione pare arrestarsi al di sotto del ‘soffitto di cristallo’ che separa le posizioni dirigenziali da tutte le altre: lassù gli uomini hanno percepito un aumento mediano di 1.326 franchi, le donne solo di 618.

Resta forte anche la differenza tra residenti e frontalieri: per questi ultimi il salario mediano ristagna a 4.477 franchi, e le retribuzioni rimangono più basse anche a parità di “età, stato civile e posizione professionale”. Se in dieci anni svizzeri e domiciliati con permesso C hanno visto crescere lo stipendio mediano di almeno il 10%, a parità di altre condizioni i frontalieri non guadagnano nulla, anzi: nel ‘matching’ perdono 11 franchi. Cambia invece anche per loro il livello d’istruzione: oggi il 31,8% dispone di una formazione terziaria, contro il 22,1% del 2008.

Per i frontalieri come per i residenti, il titolo di studio non coincide però sempre con mansioni più ‘alte’, col rischio di un “disallineamento tra il livello formativo e la professione effettivamente svolta”. Se poi un domani “un numero crescente di persone con una formazione terziaria lavorasse in funzioni che richiedono un livello d'istruzione più basso, si osserverebbe un calo di salari tra i più formati”. Un altro bel problema.

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