Ticino

'Il solito, grazie'. Di solitudini, locande e riaperture

Non sarà come prima, d'accordo: dobbiamo prepararci a una lunga convalescenza.Però rivedersi tra i tavoli è già qualcosa.

Edward Hopper, 'Nighthawks at the Diner', 1942 (Wikipedia)
12 maggio 2020
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«Il solito, grazie». Da due mesi, da quando hanno chiuso bar e ristoranti, sogno di tornare alla locanda dove vado sempre e pronunciare ad alta voce queste tre parole, apriti Sesamo d’una normalità fatta d’insalata con cipolla, focaccia col crudo e una birra alla spina. Entro, il locale è deserto: «Sei il terzo cliente che abbiamo avuto a pranzo», mi dice la gerente con gli occhi preoccupati, ma il sorriso di chi ha un gran piacere di rivederti.

Naturalmente la cosa è reciproca. Ma appena mi siedo a tavola sento che il ‘solito’ non sarà più davvero il solito, per molto tempo. Non è che prima non lo sapessi, non ci vuole un genio. Ma era una comprensione tutta razionale. Solo ora scende dalla testa allo stomaco, che si chiude un po’. Il posto deserto, i buchi tra un tavolo e l’altro – «avevo 70 coperti, ora ne faccio 22» –, l’impressione d’aver perso il vezzo di parlarsi tra semisconosciuti. Bene che vada, sarà una lunga convalescenza.

All’inizio pare tutto fuori fuoco, e dire che si torna a mangiar fuori anzitutto per tornare a vedersi: e infatti, ora che le regole igieniche proibiscono i giornali, non rimpiango quello sprofondarci dietro che a volte accompagnava i miei pranzi solitari. La cadenza portoghese dei proprietari rimette la lente al suo posto. Mi fa anche un po’ ridere quel sorriso, dietro a una specie di visiera di protezione come i cassieri nei supermercati, di quelle che sembrano uscite da una puntata dei Pronipoti.

«Io all’inizio non ci volevo credere», mi dice il marito cuoco. La moglie mi fa: «Tu sei positivo?». Risposta cinica, dopo mesi ruvidi: «Al virus?». Lei ci resta un po’ male, ma salta oltre con una nuova risata: «Ma no, per la situazione! Per le riaperture!». Ma sì, le dico. All’inizio molti avranno paura, ma poi vincerà il bisogno di incontrarsi. Speriamo, insomma. Lo dico con una convinzione un po’ forzata, forse, e quel dubbio me lo leggono in faccia al momento di portar via l’insalata: «Non lo finisci il pane? Di solito lo mangi tutto!».

Ecco le frasi per le quali vado sempre negli stessi posti, ordino sempre le stesse cose. Quei segni di familiarità che scansano gentilmente la solitudine, anche in un locale vuoto con la pioggia che cade dietro ai vetri (ci si mette anche il tempo, adesso). Da lì è tutta in discesa. Per radio passa Jovanotti, uno che tira su chiunque. Arriva la focaccia e noto che non hanno perso la mano. Una birra alla spina, quanto tempo. Si continua a parlare dei problemi: l’affitto, il lavoro ridotto per i dipendenti, l’«angoscia difficile da spiegare», la paura che «se ci ammaliamo dobbiamo chiudere di nuovo»: «Volevo fare un aperitivo per il ventennale, il primo di aprile. Quel giorno lì ero veramente triste, per questo posto abbiamo sempre lottato». Ma si parla anche dei clienti che «hanno chiamato per sapere come stiamo», delle idee per il take away, del rivedersi con la famiglia e con gli amici.

Per tirarsi su ci vorrà un po’, e un po’ lo si sente anche dal caffè. La macchina è stata ferma tanto tempo, come tutti, però «te lo offro, ci fa piacere che sei venuto a trovarci»; anche se per ora è meglio non prenderlo al bancone come al solito. Marito e moglie si ritirano a mangiare in un angolo, quando mi alzo per il conto e li vedo mi viene in mente quello che ormai si legge anche sui muri, ovvero che sembra di stare tutti in un quadro di Hopper. Come diceva Yogi Berra: “Il futuro non è più quello di una volta”.

Ma gli occhi sembrano un po’ meno preoccupati. È già qualcosa.

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