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‘Vengo dall’Eritrea e ora studio da giardiniere in Ticino’

Che cosa significa lasciare il proprio Paese? Ecco la storia di Bruk Tsegai, giunto in Svizzera dopo un lungo viaggio che lo ha portato nel nostro cantone

Foto Ti-Press
17 novembre 2018
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Pubblichiamo un contributo apparso su Ticino7, disponibile anche nelle cassette di 20 Minuti per tutto il fine settimana.

Bruk abita a Minusio: non è proprio una grande città del Nord, ma la nostalgia la conosce bene. In Ticino è giunto nel 2014, da solo, a 21 anni; voleva andare in Inghilterra, dove vivono sua zia e altri parenti, ma il suo viaggio è stato arrestato a Chiasso, e col senno di poi «va bene così», mi dice col suo modo gentile e dimesso di parlare. «Sono cresciuto a Sembel, nella città di Asmara, la capitale dell’Eritrea: dopo le elementari e le medie, ho fatto le scuole superiori a Keihbahri»: per me sono parole nuove, luoghi a cui non associo immagini; per lui evocano odori, suoni, spazi riempiti di atmosfere ed esistenze familiari ormai preclusegli. «Finita la scuola ho giocato per 3 anni a calcio a livello professionistico in Prima Lega. E poi sono partito…», lasciando tutto.

Del suo paese gli mancano tante cose: «I miei compagni di scuola, quelli di squadra, giocare con loro, la mia cultura, il cibo (anche se quello lo preparo pure qui, quando vuoi sei benvenuta)», il senso di appartenenza a una comunità. «Da noi la gente sta molto di più insieme, si condividono di più le cose belle, ma anche i problemi. Qui spesso mi sento solo, a casa, la sera». Ma sopra qualsiasi cosa gli manca la sua famiglia: «Mia mamma, i miei fratelli e la mia ragazza occupano in ogni momento la mia testa». Ha un bel nome lei, «si chiama Saron», come alcuni fiori. «Due settimane fa è finalmente riuscita ad entrare in Etiopia, è lì che incontro i miei familiari. Aveva provato due volte a lasciare il nostro paese, ma l’avevano fermata in dogana. Sono quasi 5 anni che la sto aspettando, perché io non posso più tornare in Eritrea. L’avrei aspettata anche 50 anni, perché l’amo troppo, ma per fortuna stavolta ce l’ha fatta».

Rendere accogliente il territorio

I baobab sono gli alberi iconici delle suggestive savane africane, dai tronchi monumentali e dalle forme bizzarre che crescono anche in alcune zone dell’Eritrea, ma Bruk adesso conosce meglio le piante che ricoprono il Ticino rispetto a quelle del suo paese d’origine. Sta facendo un apprendistato come giardiniere: lavora per una ditta del Locarnese e frequenta il secondo anno al Centro del verde di Mezzana, con ottimi risultati.

«Al lavoro mi trovo molto bene. Per i nostri clienti curiamo le piante, seminiamo, piantiamo fiori e alberi, sistemiamo i giardini, facciamo i piazzali; ogni giorno è diverso, non mi annoio. Il mio capo e la sua famiglia sono persone molto buone, mi hanno sempre aiutato e dato sostegno». Ha scelto questo mestiere perché gli piace «moltissimo la natura, poter stare di fuori – e lo dice accennando col capo oltre la finestra, in una mattina uggiosa di autunno, con uno sguardo capace di sincera meraviglia e gratitudine –, la Svizzera è troppo bella, e qui mi sento al sicuro». Anche a scuola va volentieri, «mi impegno al massimo per avere il diploma. Non mi pesa andare fino a Mendrisio. All’inizio era difficile per la lingua, ma con tanto studio tutto migliora. Adesso ritaglio le foto delle piante e dietro scrivo il loro nome e le informazioni, porto i cartellini in giro, osservo e cerco di riconoscerle; lo faccio anche assieme ai miei amici che non sono giardinieri: gli spiego e intanto memorizzo».

Con attenzione e metodo traccia linee immaginarie da un punto all’altro per collegare, individuare, dare valore alle componenti dell’esistente. In quella che per me è una semplice pianta lui vede la specificità, ne conosce il modo di abitare il suolo, di ergersi al cielo; i bisogni, le fragilità, le forme a cui è in grado di dar vita. Ne sa leggere il linguaggio che si manifesta lento nella stagionalità. In un bosco riesce a distinguere le singolarità che formano la moltitudine, sa nominarle, sa che occupano un tempo e uno spazio accomunate dall’universale propensione a voler esistere.

La condanna di un colore

Questa sorta di riguardo – se ne è reso conto sulla sua pelle – non è così diffusa nella società. «Lo sento dagli sguardi della gente. È per il mio colore: alcuni pensano che i neri sono tutti uguali e tutti criminali. Sul treno qualche volta capita che è pienissimo, ma io viaggio da solo perché la gente non si siede accanto a me. Sempre sul treno è successo più di una volta che ero coi miei compagni di classe, parlavo e scherzavo con loro, è passata la polizia e ha chiesto i documenti solo a me». Dicesi pratica della profilazione razziale. «Un’altra cosa: io non fumo e non bevo neanche alcol, però molte volte le persone vengono da me e mi chiedono: “Hai una sigaretta? Hai una canna?”. Ai miei amici di qui questo non succede. La gente non fa la differenza tra un nero e un altro».

È il canovaccio nell’arena pubblica. Asilanti, profughi, rifugiati, stranieri considerati come un ginepraio di corpi senza volto, flussi da gestire o respingere, ridotti a quantitativi per evocare l’ampiezza della supposta invasione, o quella della strage. Il settimanale Internazionale nell’edizione del 4 ottobre scorso ha allegato un supplemento di 104 pagine che contiene la lista di nomi delle 34’361 persone morte dal 1993 a oggi mentre cercavano di arrivare in Europa; provvisoria e approssimativa, elenca solo le vittime accertate. Le cifre dispiegate su tutti quei fogli, appaiate a un nome, provano a restituire un minimo comun denominatore di identità umana e concretezza a quelle vite rigettate dal mondo.

In viaggio tra l’orizzonte e l’abisso

Oggetto e quasi mai soggetto dei discorsi che li riguardano, le parole dei migranti sono per lo più assenti dalle narrazioni. «… Sono partito per il Sudan. Sono stato là 2 settimane, poi ho raggiunto la Libia. Il viaggio è durato tanto, è stato difficile, pericoloso. Dal Sudan alla Libia abbiamo viaggiato in un pick-up. Eravamo quasi 30 persone. Siamo stati nel deserto due settimane. Ho visto morire tre persone. Perché eravamo senza mangiare e senza bere. Il cibo e l’acqua occupano posto, loro – i passatori – preferiscono le persone perché valgono 2’000 dollari a testa, questo è il costo per quel tratto di viaggio. Più persone ci sono e più guadagnano. Della mia famiglia sono partito solo io. Mia madre e i miei due fratelli sono restati in Eritrea. Dal Sudan sono entrato in Libia dove sono rimasto quasi un mese. Eravamo quasi 200 sulla barca. Siamo partiti dalla Libia e abbiamo viaggiato 4 o 5 ore, poi il motore si è rotto. Siamo stati fermi tre giorni col mare mosso, è morta una donna incinta e anche un signore è morto. Poi a Malta hanno riparato la barca e siamo arrivati in Sicilia. Ci hanno portati in un campo. Ci hanno dato cibo e vestiti perché eravamo tutti sporchi dopo tre giorni in mare, tanti avevano vomitato. Dalla Sicilia sono andato a Roma, poi a Milano, a Chiasso».

«Mi piace qui. C’è tanta gente molto disponibile con me, mi chiedono se ho bisogno, mi aiutano, e questo mi fa contento. Per il futuro vorrei prendere il diploma e lavorare, questa è la cosa più importante, ma so che ci vuole pazienza. Mi piacerebbe anche fare una scuola di disegno la sera, è una mia passione. E vorrei giocare a calcio, l’ho sempre fatto fin da piccolo; sono stato un po’ di tempo nel Gorduno ma ho dovuto smettere per via di un infortunio, ora vorrei riprendere. E poi fra 3 mesi vado in Etiopia per sposare Saron. Al mio cuore manca ogni secondo».

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