La Corte delle Assise criminali di Lugano conferma l’atto d’accusa. Il 55enne consulente finanziario aveva sottratto 9 milioni al cliente
«Aveva inizialmente dubitato del suo truffatore. Poi la visita in uffici istituzionali a Roma in compagnia di un sedicente parente dell’allora premier Italiano Mario Draghi, lo hanno convinto che fosse tutto vero». Questa la ricostruzione alla Corte delle Assise criminali di Lugano presieduta da Amos Pagnamenta, che leggendo la sentenza ha ripercorso la vicenda che ha visto coinvolto un facoltoso cittadino statunitense che, dopo quel viaggio nella città eterna, ha iniziato a versare denaro ad Alberto Rossi, l’alias del 55enne italiano condannato oggi dalla Corte delle Assise a 5 anni e 6 mesi di detenzione e a 12 anni di espulsione, per il reato di truffa per mestiere.
Il 55enne, nel 2016 era stato avvicinato dall’americano per sbloccare una presunta eredità. Il truffato – costituitosi accusatore privato e patrocinato in aula da Andrea Gamba – era stato contattato, come si legge nell’atto d’accusa stilato dalla procuratrice pubblica Chiara Borelli, da “personaggi, che sotto mentite spoglie di responsabili di una fiduciaria lussemburghese, rispettivamente di sedicenti funzionari di una banca svizzera” hanno fatto credere all’uomo di essere l’erede di un patrimonio stimato in 3 milioni di dollari, cifra poi lievitata a 40 milioni. Per trasferire tale somma, però, occorreva “per motivi di confidenzialità” l’intervento “di un facilitatore attraverso la Banca d’Italia”, per l’appunto il 55enne consulente finanziario che ha agito in correità con un avvocato allora attivo nel Luganese e con presunti legami con la Guardia di Finanza. Borelli ha chiesto 6 anni di pena e 15 di espulsione.
Questa ricostruzione, sebbene ritenuta «non correttamente redatta» dall’avvocato dell’imputato Andrea Lenzin – che durante la sua arringa di mercoledì si era battuto invece per l’assoluzione –, è stata confermata interamente dalla Corte – composta anche dai giudici a latere Luca Zorzi e Fabrizio Filippo Monaci e dagli assessori giurati –, così come tutte le dichiarazioni della vittima, che «ha detto tutto in modo preciso. Inizialmente era incerto perché gli avevano fatto i nomi di diversi possibili parenti (dell’eredità, ndr), dei quali solo uno di questi era vero». Poi però l’incontro a Roma negli uffici del Ministero dell’Economia e delle Finanze a nella capitale italiana «ha aumentato la credibilità della storia». Per il giudice «è interessante notare che il 55enne si era presentato con un nome falso e si è sempre prodigato a negare che Alberto Rossi fosse lui. L’imputato non è credibile nelle sue dichiarazioni, non vi è motivo di nascondere la propria identità se non per imbrogliare i propri clienti».
Per la decisione emessa dai giudici è pesata anche la sentenza emessa dalla Corte di appello e revisione penale (Carp) nei confronti del suo correo, il già avvocato Antonio Trifone, con il quale ha messo in piedi questa truffa. I due, dopo essersi conosciuti nel 2013, hanno iniziato a collaborare: il 55enne adescava le vittime teneva i contatti con loro e investiva i loro soldi in hedging – in totale sono nove i milioni sottratti allo statunitense –, mentre Trifone aveva il ruolo di mettere a disposizione delle vittime le sue società ‘dormienti’ e convincendole che queste erano indispensabili per il trasferimento degli ingenti patrimoni, la famosa eredità da 40 milioni di dollari. Per questa faccenda l’avvocato è già stato condannato in secondo grado a tre anni e mezzo di reclusione e otto di espulsione.
Come però precisa a ‘laRegione’ Lenzin, la vicenda non è conclusa: tale incarto si trova ora in mano ai giudici del Tribunale federale «e nella sentenza della Carp non vi è alcuna menzione dell’astuzia dell’inganno», dunque dell’aggravante, nei confronti del correo. Pertanto, anche la difesa del 55enne ha intenzione di presentare ricorso. Ritornando in aula, secondo la Corte la colpa del 55enne «è grave sia dal punto di vista oggettivo, data l’entità del maltolto e la reiterazione, che soggettivo, per aver agito a puro scopo di lucro, rivestendo un ruolo di primo piano. Disponeva di tutte le facoltà intellettuali per non compiere la truffa. Invece ha tessuto una fitta rete di inganni». La Corte non ha ravvisato attenuanti della pena «dato che non ha mai voluto assumersi le sue responsabilità». Il condannato inoltre dovrà restituire alla vittima l’intera somma sottratta, alla quale si aggiunge un risarcimento danni di oltre 400mila franchi.