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‘In ansia per i miei figli’: Mezhde rischia ancora l’espulsione

Verso il preavviso negativo da parte del Cantone. L’avvocata della famiglia curda: ‘Non tengono in considerazione che lei ha vissuto più qui che in Iraq’

I bambini hanno 8 e 4 anni, il piccolo è nato in Svizzera
9 febbraio 2023
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«Sono in ansia per me, per mio marito e soprattutto per i miei figli». Resta appesa a una sensibilità, a un preavviso, la vita di Mezhde, del marito e dei figli di 8 e 4 anni. La famiglia della 32enne curda irachena rischia ancora l’espulsione. Mentre la storia di Khaleda e Satayesh – la mamma e la figlia afghane della Valle Verzasca – ha colpito anche la politica, portando a una mobilitazione della maggior parte dei gruppi in Gran Consiglio, su un simile caso luganese si addensano le nubi. Dopo che la Segreteria di Stato della migrazione (Sem) aveva stabilito come termine per l’allontanamento il 2 gennaio scorso, pochi giorni fa l’Ufficio della migrazione del Dipartimento delle istituzioni ha fatto sapere di essere orientato verso un preavviso negativo riguardo all’istanza di fine dicembre per il caso di rigore e l’effetto sospensivo in caso di ricorso.

‘Argomentazioni superficiali’

«È un’assurdità – commenta l’avvocata Immacolata Iglio Rezzonico –. Non sono state prese in considerazione le nostre motivazioni, non sono state argomentate se non superficialmente, e in generale non sono entrati nel concreto nella vita e nella storia dei richiedenti il caso di rigore». Una storia particolare, che ricordiamo in estrema sintesi: Mezhde è nata nel 1991 in un campo profughi in Iran, durante la Guerra del Golfo, e per questo non ha un regolare atto di nascita, a differenza delle sorelle minori che sono nate nell’ospedale della città d’origine (Duhok, nel Kurdistan iracheno, ndr) e che oggi sono cittadine svizzere. Nel 2000 l’intera famiglia lascia l’Iraq e si rifugia a Lugano, dove Mezhde finisce le scuole dell’obbligo, l’apprendistato di parrucchiera e inizia a lavorare. Nel 2012 ritorna in Kurdistan dove si sposa e dopo due anni nasce il primo figlio. Con l’avvento della guerra civile le cose peggiorano e il marito, impiegato di un’azienda petrolifera, comincia a ricevere minacce (anche di morte) e nel 2017 la famiglia fugge e decide di ricongiungersi con i genitori e le sorelle di Mezhde, rimasti a Lugano.

‘Ha trascorso più anni in Svizzera che in Iraq’

Una prima domanda d’asilo viene tuttavia rifiutata dalla Sem nel 2020, la decisione di Berna è stata impugnata e a fine 2022 dal Tribunale amministrativo federale (Taf) di San Gallo è arrivata la doccia fredda: ricorso respinto ed espulsione entro il 2 gennaio. Una decisione alla quale la legale si è immediatamente opposta, chiedendo il caso di rigore e l’effetto sospensivo. E per la decisione della Sem il preavviso di Bellinzona è fondamentale. «Ciò che scrivono però ci lascia estremamente perplessi – ribadisce Iglio Rezzonico –. Intanto perché ripetono che la famiglia vive qui da ‘solo’ cinque anni, trascurando completamente il fatto che la signora abbia trascorso la maggior parte della sua vita in Svizzera e non in Iraq. E poi insistono sul fatto che a Duhok risiedono numerosi membri di entrambe le famiglie (materna e paterna, ndr), ma senza valutare in concreto quali membri vivono in Iraq e che tipo di rapporti vi sono con queste persone. Dire che là ci sarebbe una rete familiare pronta ad accoglierli, è falso. La loro famiglia è qui, in particolare quasi tutta la famiglia della signora vive a Lugano». Altro aspetto che la legale critica sono le considerazioni sull’attività professionale della 32enne e del marito 35enne. «Asseriscono che lavorando a tempo parziale entrambi, le loro attività lavorative non sarebbero consolidate, ma anche questo è falso e non si fa alcun cenno del fatto che la loro indipendenza economica sia in realtà un fattore molto positivo».

‘Mio figlio ha paura, va dalla psicoterapeuta’

L’Ufficio della migrazione ha concesso adesso un paio di settimane agli istanti per prendere posizione e fornire ulteriore documentazione prima di inviare il proprio preavviso a Berna. «Stiamo passando un periodo d’ansia mai vissuto in vita nostra – ci confessa intanto Mezhde –, è davvero un brutto momento fra stress e preoccupazioni. Abbiamo l’impressione di star vivendo una battaglia psicologica. Al rimpatrio forzato non voglio pensare, la mia preoccupazione principale in questo momento è quella di perdere il lavoro. E poi i miei figli. Sto portando il grande da una psicoterapeuta, lei è molto brava, ma lui è bloccato. Fa fatica ad aprirsi, ma in famiglia esprime tutte le sue paure e le sue angosce. È riuscito solo a dire che è triste, le ha detto che se avesse una bacchetta magica impedirebbe l’espulsione e chiederebbe la felicità per tutta la famiglia. La psicoterapeuta ha confermato che il bambino potrebbe essere esposto a un trauma. Adesso anche al piccolo abbiamo spiegato cosa sta succedendo. Continua a ripetere ‘Kurdistan’, che è una parola che prima non utilizzava mai mentre ora la sente da noi che ne parliamo e la ripete ma senza capire esattamente cosa implichi. Non è mai neanche stato lì. La vita dei bambini è qui».

La sorella: ‘Io sono sconvolta’

A confermare parole e sentimenti di Mezhde, è la sorella. «Io sono sconvolta da quel che sta succedendo. Non si può fare così, soprattutto perché di mezzo ci sono dei bambini. Noi siamo svizzere, mia sorella ha trascorso la maggior parte della sua infanzia e della sua adolescenza qui. Non mi sembra giusto che la Svizzera volti le spalle a una persona che ha parenti svizzeri che vivono qui. Come vengono aiutate giustamente molte altre persone, penso che si possa farlo anche per mia sorella e per la sua famiglia, perché hanno fatto tanto per integrarsi e lo stanno facendo nel modo giusto. Prima di negare un permesso o una residenza andrebbero valutati meglio tutti questi aspetti positivi».

Oltre 1’000 firme a sostegno

Per la sorella di Mezhde, ci vorrebbe un occhio di riguardo per i bambini. «La decisione si sarebbe dovuta prendere molto prima. Invece sono passati cinque anni e nel frattempo tutta la famiglia si è inserita e integrata, i bambini in particolare. E poi noi siamo una famiglia molto unita, ci vediamo tutti i giorni. È vero, la famiglia di mio cognato vive giù, ma la parte materna è tutta qui e i bambini sono molto più legati a noi. Io sono molto legata ai miei nipotini, vedo quanto stanno male per questa situazione. Stiamo tutti molto male, vogliamo che questa vicenda si risolva in maniera positiva perché mia sorella e la sua famiglia lo meritano. Sicuramente faremo tutto quello che è in nostro potere. Non ci arrenderemo, faremo di tutto per aiutarli». Di tutto, a cominciare da una raccolta di firme, avviata proprio dalla sorella, che nel giro di circa un mese e mezzo ha raccolto oltre 1’000 adesioni. L’intenzione è di depositarle a Palazzo delle Orsoline prossimamente.

Il Basket si mobilita per il bambino

E intanto la vita va avanti, sospesa. A cominciare da quella dei bambini, che frequentano la scuola dell’infanzia e la terza elementare a Lugano. Attorno al figlio maggiore, in particolare, si è creata una forte rete di solidarietà. «Sì, abbiamo contribuito a far girare la petizione affinché possa rimanere qui, a casa sua, e sia il presidente sia l’allenatrice hanno firmato una lettera inviata all’avvocata» ci conferma Monique Giancamilli Spadini, segretaria dell’associazione di pallacanestro nella quale milita il bambino, i Viganello Caimans. «È un bambino inserito perfettamente. È un bambino motivato, ben integrato con i compagni di squadra, è già il terzo anno che è da noi. Gioca, si diverte, come tutti i bambini della sua età. È una storia che ci ha toccati molto e diversi nostri associati si sono attivati a loro sostegno». Basterà?

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