L'analisi

E lo zar Putin entra ad Aleppo

19 dicembre 2016
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Dopo il lunghissimo assedio, un tronfio Bashar al Assad commenta la caduta di Aleppo sostenendo di aver scritto “una pagina di storia”. Sì, ma una storia di sangue e nefandezze. E di comode falsità. Quella, fra l’altro, assai comoda per le nostre coscienze intorpidite, che sostiene la tesi di una guerra siriana in cui tutti sono colpevoli, e tutti allo stesso modo. Un falso. Perché è vero che ci sono le colpe, e anche su quelle delle milizie jihadiste non vi sono dubbi; ma ci sono anche le responsabilità, e quelle del dittatore di Damasco sono storicamente indiscutibili. Nel 2011, alla protesta pacifica per l’arresto di un gruppo di ragazzini che alla periferia della capitale sbeffeggiavano i vertici del regime, Assad (espressione della minoranza alawita) rispose immediatamente con i vecchi strumenti del potere: intervento dell’esercito, manifestazioni soffocate nel sangue, e le immancabili torture. Segue la micidiale slavina. Fine della protesta democratica. Inizio della rivolta armata. Intervento delle potenze esterne interessate agli equilibri e agli squilibri da imporre alla regione. E il capolavoro politico di Damasco: far credere, a un Occidente bersagliato dagli attentati dell’Isis, che la Siria doveva essere considerata il primo baluardo contro lo Stato Islamico. In realtà, contro gli sgherri del Califfato l’esercito siriano non aveva sparato un solo colpo, gli aveva praticamente lasciato campo libero, non aveva combattuto contro la conquista di Raqqa diventata la capitale dell’Isis, perché tutta l’attenzione doveva essere concentrata contro la ribellione verbalmente sostenuta dagli Stati Uniti e finanziariamente dall’Arabia Saudita. Questi, sostanzialmente, sono stati i binari su cui si è sviluppata una delle principali tragedie dalla Seconda guerra mondiale, con un bilancio impressionante di morti, feriti, distruzioni, profughi. E la pagina di Aleppo, storicamente capitale del Nord e dell’economia nazionale, è stata particolarmente atroce. Intervenuta soprattutto per salvare l’alleato di Damasco, la Russia di Putin ha partecipato all’inaudito massacro (modello Cecenia), e oggi le “lamentele umanitarie” meno credibili sono quelle degli Stati Uniti, che in fatto di stragi e guerre sbagliate nella regione vantano un curriculum ancora ineguagliato. Si vedrà quali vantaggi e dividendi politici raccoglierà un Vladimir Putin che ormai viene anche chiamato “lo zar d’Oriente”. La guerra siriana non è affatto finita, la disgregazione del Paese è una prospettiva sempre concreta, le alleanze di Mosca con Iran e Turchia potrebbero rivelarsi di breve durata. Vedremo anche in che modo lo stesso presidente russo capitalizzerà questo apparente successo politico-militare al di fuori della regione. Di certo, se Putin segna questo punto anche d’immagine, è perché l’Occidente è stato più che accomodante. Anzi, quasi interessato, addirittura sollevato nel lasciare al capo del Cremlino l’incarico di sciogliere la terribile matassa che Stati Uniti ed Europa non hanno potuto o voluto sciogliere. Intanto si avvicina l’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump. Che ha più volte elogiato Putin. Ammirazione reciproca. Ma la futura amministrazione americana, piena di gente che criticò le incertezze del ‘commander in chief’ Obama, condividerà l’idea di consegnare a Putin una delle chiavi del Medio Oriente?

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