laR+ Neopromosse d'Europa/5

Il basket, il vino e la maglia leggendaria del Boca Juniors

I baschi del Deportivo Alavés, appena ritornati nella Liga, all’inizio del nuovo millennio furono protagonisti di una pirotecnica finale di Coppa Uefa

In sintesi:
  • Il Rioja, celebre vino spagnolo, è il prodotto trainante dell'economia della città di Vitoria-Gasteiz
  • In occasione della finale di Coppa Uefa del 2001 contro il Liverpool, vestirono la maglia degli argentini del Boca Juniors
18 agosto 2023
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Se qualcuno al di fuori della Spagna ha già sentito parlare di Vitoria, non è certo per via del calcio. Il merito, al massimo, è del vino: il luogo in questione è infatti uno dei maggiori centri di produzione del Rioja, il celebre rosso del nord-est. E, se proprio si vuole trovare uno sport che abbia dato un minimo di prestigio alla città – ufficialmente Vitoria-Gasteiz, in omaggio al villaggio visigoto accanto al quale il re di Navarra Sancho VI il Saggio decise nel 1181 di edificare il nuovo insediamento – quello sarebbe casomai il basket. Il Saski Baskonia, infatti, terza forza della palla a spicchi nazionale, ha vinto una Coppa Saporta e per ben due volte è stato finalista in Eurolega.

Niente calcio, dunque, o comunque poco, anche perché la squadra più importante di questo angolo di Paese Basco nemmeno porta il nome della sua città, bensì quello ancor meno conosciuto – alle nostre latitudini – della sua regione. Stiamo parlando del Deportivo Alavés, così chiamato appunto in omaggio all’Alava, landa che campa, come detto, di viticoltura.

Storicamente club meno che trascurabile del fùtbol iberico, l’Alavés fu fondato nel 1921, raggiunse presto il massimo campionato ma lo abbandonò ancor più rapidamente, per poi cabotare per quasi mezzo secolo fra la quarta e la seconda serie, finché nel 1998 tornò nell’élite del calcio nazionale. Il primo anno si salvò soltanto per miracolo, ma la stagione seguente, in maniera ancor più prodigiosa, i biancoblù furono in grado di conquistare un sesto posto che, come in un sogno, li catapultò per l’annata 2000-2001 addirittura in giro per il continente, a giocarsi la Coppa Uefa.

Agli alavesi pareva impossibile: avevano finalmente l’occasione di vedere il loro nome, la loro squadra e l’intera loro regione competere con quella che viene definita l’aristocrazia del calcio europeo.

Privi dei porti, dell’industria e del turismo che abbondavano invece nelle corregionali città di Bilbao, Pamplona o San Sebastian, agli abitanti di Vitoria all’inizio del Novecento non era restato che attaccarsi, nel senso buono, alla bottiglia. E così, come detto, divennero fra i più importanti produttori di Rioja. Soprattutto come quantità, perché la qualità del loro vino – va detto – è leggermente inferiore a quella del più rinomato Rioja di Logroño, che si produce qualche chilometro più a sud. Un po’ meno pregiato, il loro nettare è sempre stato dunque destinato al mercato interno più che a quello internazionale. E la Coppa Uefa, dunque, veniva vista come uno straordinario veicolo di promozione su più ampia scala per la più importante risorsa economica regionale.

Nella terra del Rioja

Dirigenti e sponsor del club (Rioja Alavesa) ebbero così la brillante idea di adottare per l’occasione di gala una divisa da gioco che, oltre a portare stampato il nome della bevanda in questione, ne avesse anche le tinte. Per la prima, storica campagna continentale dell’Alavés, quindi, la squadra sarebbe scesa in campo con una magnifica maglia ‘trasü da ciocch’, che nella lingua di Dante sarebbe il color vinaccia.

E la scelta si rivelò azzeccatissima, perché contro ogni pronostico quell’avventura fuori dai confini nazionali si tramutò in una travolgente cavalcata che, a cavallo dei due millenni, condusse la Cenerentola del calcio spagnolo addirittura fino alla finale del torneo. Ma andiamo con ordine: la prima vittima dell’Alavés e del vino di cui era ambasciatore fu il Gaziantepspor. I turchi, si sa, della viticoltura furono pionieri, ma nel corso dei secoli, per ragioni filosofiche, dall’alcol finirono per allontanarsi. E così, persa l’abitudine, riuscirono a tener testa agli spagnoli solo nella gara d’andata, terminata 0-0, mentre nel match di ritorno accusarono la sbornia e finirono per perdere 4-3.

Al secondo giro, evitati Porto e Bordeaux – coi quali avrebbero potuto dar vita a memorabili derby della barbatella – i baschi pescarono il Lillestrøm: in Norvegia, non è un segreto, al massimo si produce la birra, bibita che il confronto col vino lo perde per legge divina, e infatti a superare il turno furono di nuovo gli spagnoli. L’avversario nei sedicesimi di finale fu il Rosenborg, altro club norvegese, e dunque sarebbe inutile ripetersi: anche in quel caso il turno fu naturalmente superato in carrozza.

Negli ottavi all’Alavés toccò invece l’Inter, squadra di una provincia da cui la produzione vinicola era sparita ormai da un secolo e mezzo, spazzata via dalla cementificazione e dalla filossera: 3-3 all’andata a Vitoria e successo basco 2-0 nel ritorno giocato a San Siro furono i parziali che regalarono ai vignaioli il passaggio ai quarti di finale. La felicità dei tifosi dell’Alavés – e naturalmente degli investitori, che potevano continuare a mettere il loro marchio in vetrina per qualche altra settimana – era alle ormai stelle, anche perché il prossimo avversario, di nuovo scansato il Porto (che incrociò il Liverpool), era il Rayo Vallecano, compagine anch’essa spagnola e non certo di primo livello: c’erano insomma le premesse affinché la tournée continentale potesse continuare ulteriormente.

E naturalmente fu così: superata la terza squadra di Madrid con un complessivo 4-2, i nostri eroi approdarono alle semifinali, dove ebbero la fortuna di lasciare Barcellona e Liverpool a scannarsi fra di loro per potersi dedicare, molto più agevolmente, al Kaiserslautern. I tedeschi, è noto, di vino capiscono pochissimo, e infatti sono soliti mischiarlo, in boccali concepiti per la Weizen, alla coca-cola. L’imbarcata alcolica per i teutonici fu storica, dato che persero 5-1 all’andata e 4-1 al ritorno. La resaca (l’hangover iberico) fu durissima da smaltire, e pare che nel Palatinato, a distanza di 22 anni, qualcuno addirittura sia ancora intento a recere.

Giunse dunque il giorno della finale, in cartellone il 16 maggio 2001 a Dortmund. Gli spagnoli, consapevoli che casacca vinaccia e protezione di Noè contro la corazzata Liverpool non sarebbero bastati, decisero di adottare una nuova tattica. Come certi animali per natura destinati a essere divorati da bestie più forti di loro, optarono per la forma più audace di camuffamento: non la mimesi – che ti nasconde agli occhi del nemico – ma l’imitazione, che lo induce a credere che tu sia qualcosa d’altro, qualcosa di temibile e con cui è meglio non entrare in contatto, come certe farfalle che sulle ali hanno dipinto il muso di un pericoloso serpente, per dissuadere rane e camaleonti malintenzionati.

I colori bosteros

L’Alavés si presentò dunque al Westfalenstadion vestendo l’iconica maglia blu con banda gialla al petto degli argentini del Boca Juniors, uno dei club più forti e titolati della storia del calcio mondiale. Tutta l’Europa ci ha visto giocare fin qui – si saranno detti a Vitoria – non siamo più una sorpresa per nessuno. È come col vino: se lo studi, impari e berlo e a reggerlo. Per render groggy gli inglesi, non basta la tattica usata fino a oggi, dobbiamo trovare qualcosa di più potente. E la scelta, anche in quell’occasione, si rivelò vincente, tanto che il miracolo stava per compiersi di nuovo: a mancare fu solo una nota di fortuna, un sentore di buonasorte, un accenno di culo, tanto per attingere alla semantica dei sommelier.

Anche quella stagione per il Liverpool, come spesso gli capita, fu una grande annata, di quelle che – fosse spumante – sarebbe millesimato. Allenato dal guru francese Gérard Houllier, schierava infatti gente del calibro di Gerrard, Babbel, McAllister, Robbie Fowler, il nostro Henchoz, i cechi Smicer e Bergerz, il Pallone d’Oro Michael Owen e il monumento difensivo Hyppiä. Il Deportivo Alavés, invece, non era che un discreto assemblaggio – in realtà un’accozzaglia – portato però a eccellente maturazione dal suo tecnico, il navigato basco José Manuel Esnal, che per tutta la carriera si era fatto il mazzo in provincia. Il solo nome conosciuto nel roster dei cantinieri era quello di Cruijff, ovviamente il figlio. Per il resto, si trattava soltanto di un curioso pot-pourri di mestieranti giovani e vecchi provenienti da ogni angolo del pianeta.

Ebbene, questa armata Brancaleone su cui nessuno a inizio stagione avrebbe scommesso nemmeno un duro – la moneta da cinque pesetas – quella sera di maggio del 2001, anche grazie al doping fornito dalla maglia del Boca, flirtò con la gloria fino all’ultimissimo respiro. Sotto 2-0 al 16’ e 3-1 al 41’, l’Alavés riuscì ad agguantare il 4-4 proprio un attimo prima che il francese Veissière fischiasse la fine del match. E al 117’ fu soltanto una sfortunatissima autorete a estinguere il sogno dei baschi. Erano gli infami anni dello sciagurato golden goal, e dunque non ci fu nemmeno il tempo per tentare di recuperare e andare magari ai rigori. La Storia, ad ogni modo, era stata scritta, e la città di Vitoria, per lo spazio di una sera, ebbe il suo meritato posto sulla carta geografica del pallone continentale.

Dopo l’apogeo toccato nel 2001, l’Alavés è tornato nell’ombra, retrocedendo fino alla terza serie per poi, negli anni recenti, mettersi a fare l’ascensore fra l’élite e il secondo livello. La scorsa primavera, dopo un solo anno di purgatorio, i biancoblù hanno chiuso al quarto posto il torneo cadetto e nella doppia sfida di playoff hanno avuto la meglio del Levante, che era giunto terzo, e hanno riconquistato un posto nella Liga. Non senza un brivido, visto che, dopo lo 0-0 dell’andata giocata in casa allo stadio Mendizorrotza, i nostri Babazorros (mangiatori di fagioli) hanno dovuto attendere l’ultimo minuto di recupero del secondo supplementare della gara di ritorno a Valencia per segnare su rigore con Asier Villalibre – ragazzo del terroir, essendo basco di Guernica – la rete della liberazione.

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