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Sotto il peso del forziere scricchiola la democrazia

Le dimensioni della nuova megabanca che unisce Ubs e Credit Suisse potrebbero avere conseguenze anche sull’autonomia delle istituzioni

In sintesi:
  • L'istituto sarà grande più del doppio rispetto al Pil svizzero
  • Controllerà la maggioranza relativa di investimenti, ipoteche, sponsorizzazioni
  • Molti temono la subordinazione della politica. Sergio Rossi: ‘Se esce testa vincono le banche, se esce croce accorre lo Stato’
Sergio Rossi
23 marzo 2023
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Troppo grande per fallire, d’accordo. Ma la nuova Ubs ‘agli ormoni’ – un colosso da 5mila miliardi di dollari in patrimoni assortiti – non sarà anche troppo grande per la nostra politica e per le autorità di controllo svizzere? Dopotutto parliamo di un istituto che solo in Ticino arriverà a gestire qualcosa come il 50% del mercato: depositi, ipoteche, servizi a famiglie e imprese. Leggi: investimenti, cantieri, eventi, attività culturali. Si tratta dunque di vedere se le autorità avranno le spalle abbastanza larghe per arginare, quando necessario, operazioni e strategie la cui massa critica basta da sola a destabilizzare interi mercati. Oppure se siamo di fronte, come ha denunciato il padre della legislazione ‘too big to fail’ Urs Birchler, a “una catastrofe per la democrazia”. Ne parliamo con Sergio Rossi, professore ordinario di macroeconomia e di economia monetaria all’Università di Friburgo

Alludendo alle dimensioni della nuova entità che unisce Ubs e Credit Suisse, la Neue Zürcher Zeitung ha scritto che “la Svizzera si è certamente sbarazzata di una banca zombie, ma si risveglia oggi con una banca mostro”. Come potrà la politica svizzera mantenere una sua autonomia sotto il peso d’un gigante del genere?

Già prima di questa acquisizione abbiamo visto come Credit Suisse e Ubs dettassero le scelte non solo del mercato finanziario e delle imprese – costrette a soddisfarne le pretese di rendimento –, ma anche delle istituzioni politiche e di sorveglianza, che non hanno fatto nulla per contrastare seriamente l’accumularsi di rischi e cattive pratiche da parte di entrambi questi colossi bancari. Nel fine settimana ciò è risultato ancor più evidente, con il Consiglio federale e la Banca nazionale svizzera pronti a intervenire nella loro veste di attori e garanti pubblici per salvare un colosso privato.

Va detto che in questi giorni un po’ tutti i partiti hanno parlato di evento catastrofico, esprimendo indignazione per il fatto che si sia dovuti arrivare a un salvataggio così precipitoso. Si chiedono a gran voce nuove leggi e commissioni d’inchiesta. Una sessione speciale delle Camere federali, probabilmente subito dopo Pasqua, discuterà l’accaduto e il ricorso a normative d’urgenza da parte dell’esecutivo. Possiamo aspettarci un’azione politica più assertiva nei confronti d’un brutto andazzo degli istituti ‘too big to fail’?

Quando c’è un incendio, anche i partiti che seguono un’agenda liberista sono ben contenti di veder arrivare in soccorso lo Stato-pompiere: lo si è notato con gli interventi a sostegno delle imprese nel corso della pandemia, invocati con veemenza salvo poi tornare a perorare il meno Stato, l’austerità, i bilanci pubblici in pareggio. Credo che il copione si ripeterà anche stavolta: passata l’emergenza si tornerà a predicare la necessità di lasciare i mercati finanziari funzionare secondo la “legge” della domanda e dell’offerta, illudendosi nuovamente che basti la disciplina della concorrenza e tollerando pure che la Finma (l’autorità di vigilanza sui mercati finanziari, ndr) si guardi bene dal sorvegliare seriamente l’attività del settore, proprio com’è successo nel caso di Credit Suisse. Insomma: si continuerà a chiudere un occhio, quando non due, anche per il timore che altrimenti i grandi colossi finanziari si spostino in altri Paesi, poi seguiti dalle multinazionali.

Resta il fatto che il rischio sistemico continua ad aumentare insieme alle dimensioni delle banche. Se nel 2008 si è dovuta salvare l’Ubs e nel 2023 il Credit Suisse, non crede che finalmente si riconoscerà la necessità di regole più stringenti, per evitare tra qualche anno un collasso ancora maggiore?

Non c’è alcuna probabilità che sul piano politico si arrivi a decisioni, imposizioni giuridiche e regolamentazioni davvero più severe. Passata la bufera, si tornerà a sostenere il laissez-faire. Invece occorrerebbe – più ancora che aumentare i requisiti in termini di fondi propri e liquidità –imporre che il bilancio totale di una banca non superi il prodotto interno lordo del Paese, o una frazione di esso. Se pensiamo che il Pil svizzero si aggira attorno a 800 miliardi di franchi e ora vi si ‘siede’ sopra un colosso privato con un bilancio di 1’600 miliardi, che gestisce un patrimonio di 5mila miliardi, è facile vedere a quali rischi si vada incontro, tanto da un punto di vista economico quanto da quello delle distorsioni legislative e democratiche. Poi è necessario evitare i conflitti d’interesse, separando giuridicamente le tre attività principali svolte da queste banche: banca d’investimento – quella che ha causato più guai a Ubs nel 2008 e ora al Credit Suisse –, banca commerciale – che fornisce prestiti e raccoglie depositi –, e gestione patrimoniale. L’investment banking andrebbe limitato entro tetti massimi, essendo ad alto rischio nella sua esposizione globale, mentre il lato commerciale andrebbe orientato alla crescita sostenibile dell’economia reale sul territorio, evitando ulteriori speculazioni e favorendo la transizione ecologica.

Nella gestione della crisi, però, il governo e la Bns si sono mossi con grande rapidità e abilità: hanno sventato in poche ore un crack che sarebbe stato catastrofico.

Certamente l’ultimo minuto è stato giocato con efficacia, tamponando il crollo di fiducia che stava spingendo il Credit Suisse al fallimento. Però non è bello vedere che si è arrivati fin lì a causa di una partita puramente speculativa, nella quale la finanza-casinò è andata avanti senza scrupoli e le autorità federali sono intervenute solo in extremis. L’impressione è sempre la stessa: se esce testa vincono le banche e i loro manager, se esce croce arriva in soccorso lo Stato. Si specula sempre nella consapevolezza che quando va male ci sarà qualcun altro a pagare. Come altri Paesi, la Svizzera non ha fatto quel che doveva fare: né le istituzioni politiche, né la Bns, che per legge dovrebbe contribuire alla stabilità del sistema finanziario e invece non lo ha fatto in alcun modo, se non quando i buoi erano già fuori dalla stalla.

Sempre a proposito di leggi, ci si aspettano cause collettive internazionali per il fatto di avere annullato nottetempo il valore delle obbligazioni convertibili cosiddette ‘At1’ (Additional-Tier 1) o ‘CoCo’ (Contingent Convertibles): bond convertibili in azioni che servono a proteggere una banca in caso di crisi di liquidità. Di solito i creditori – chi possiede obbligazioni – sono più protetti degli azionisti in caso di perdite. In questo caso, invece, è stato il contrario. C’è chi ritiene che ciò violi il diritto nazionale e i ‘buoni costumi’ internazionali, e anche la Banca centrale europea ha preso le distanze da tale modus operandi. Chi ha ragione?

L’incidente diplomatico con la Bce crea nuovi problemi per la reputazione svizzera, ma bisogna pur ricordare che chi possedeva CoCo bonds era informato del rischio. D’altronde, anche gli azionisti di Credit Suisse hanno dovuto accettare un accordo che riduce notevolmente il prezzo delle azioni, senza essere stati consultati. Dopo il precedente dell’azzeramento degli At1 gli investitori istituzionali che di solito acquistano i CoCo svizzeri saranno sempre meno numerosi, ma non si può dire che non sapessero a cosa andavano incontro.

C’è chi sostiene che invece di affidarlo a Ubs si sarebbe dovuto nazionalizzare il Credit Suisse, per poi rivenderlo con più calma, magari ‘a pezzi’, e preservare la concorrenza. Ma era una possibilità reale, oppure solo un’ipotesi donchisciottesca?

Era una prospettiva irrealistica: la cultura politica e finanziaria svizzera è ben lontana dall’inserire nel settore pubblico una banca di questo genere. Oltretutto, la sua dimensione internazionale avrebbe imposto di far ricadere sulle spalle dei contribuenti svizzeri anche i costi di scelte prese in tutt’altro Paese. Le attività più problematiche di Credit Suisse sono proprio all’estero, per cui sarebbero dovute intervenire anche le autorità americane, britanniche, europee. Un’utopia.

Questa non è stata una crisi di liquidità e non è dipesa semplicemente da asset ‘marci’ come i mutui subprime nel 2008-9. È stata invece una crisi di credibilità: è bastato che un saudita dicesse “assolutamente no” a un’ipotesi di ricapitalizzazione perché la gente corresse verso l’uscita d’emergenza. Segno che oggi l’homo oeconomicus è parecchio nervosetto, il che a sua volta contribuisce alla fragilità del sistema. Che fare?

Assistiamo agli effetti di questo nervosismo anche per via di quei ‘gregari’ – banche di piccole e medie dimensioni, fondi d’investimento incapaci di analizzare in tempo reale tutte le variabili – che seguono i movimenti dei leader di mercato, ipotizzando che abbiano informazioni migliori degli altri. Si genera così un effetto valanga, ad esempio sulle vendite di azioni di società sfiduciate, che diventa rapidamente incontrollabile. Occorre tornare a ragionare sul ‘prodotto’ finanziario per renderlo più comprensibile, aumentandone la trasparenza e semplificando gli attivi finanziari: spesso invece perfino i nostri risparmi nelle casse pensioni finiscono investiti in scatole nere e matrioske, offerte estremamente complesse come i derivati, che perfino chi deve valutarne il rischio fatica a comprendere. È dunque auspicabile tornare ad azioni e obbligazioni più direttamente ancorate all’economia reale, lasciando perdere i ‘prodotti’ finanziari esotici...

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