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In America Latina i partiti al potere non sanno più vincere

Mentre l’Europa si ritrova sempre più annebbiata dai discorsi sovran-populisti, in Sudamerica è in corso una chiara svolta a sinistra

Lula, la Fenice della politica brasiliana
(Keystone)
3 novembre 2022
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Ci sono modi e modi di vincere una partita. Anche un’elezione. C’è quella domenica in cui tutto fila liscio e la tifoseria si gode un vero spettacolo: una squadra sempre all’attacco, con uno stile vistoso, in netto predominio sul campo, che schiaccia il rivale e fa vedere ogni tipo di prodezza. In Brasile lo chiamano il ‘jogo bonito’. Ci sono invece quelle volte in cui la vittoria la si raggiunge in un’altra maniera: partita chiusa, brutta, nessuno riesce a esprimersi al meglio. A definire le sorti del match, quasi all’ultimo, ci pensa un episodio, spesso polemico: un rigore dubbio, una rete in fuorigioco, una mano non vista dall’arbitro. Si vince per il rotto della cuffia e soffrendo. Ma si vince. Successi che a volte si festeggiano di più che un 5-0 di calcio spumeggiante. Soprattutto in un derby.

Qualcosa del genere è accaduto lo scorso weekend tra Lula e Bolsonaro: il già due volte presidente del Partito dei lavoratori (Pt), detenuto per presunti atti di corruzione per più di 500 giorni durante il governo dell’ex capitano dell’esercito di estrema destra, si è imposto al ballottaggio per la presidenza del Brasile per una differenza esigua. Come già accaduto nella prima tornata elettorale, i sondaggi non sono riusciti a intercettare nemmeno al secondo giro il vero volume del voto "vergogna": quello dei sostenitori di Bolsonaro che non hanno voluto ammettere di essere tali. Così, la vittoria di Lula al fotofinish ha aggiunto un ulteriore tassello di drammaticità a una campagna lunga, dura, violenta. Una vittoria riconosciuta malvolentieri e solo in modo tacito dallo sconfitto Bolsonaro quasi due giorni dopo la diffusione dei risultati. È vero, il presidente uscente ha fatto un’ottima elezione. Ciononostante fra un paio di mesi dovrà consegnare la conduzione del Paese al suo acerrimo nemico politico.

Dalle urne emerge dunque un Paese spaccato a metà: da un lato i "fedeli" allo pseudopastore Jair Bolsonaro, omofobo, misogino, razzista, negazionista del cambiamento climatico e tanto altro. Dall’altro un’alleanza eterogenea (che va dalla sinistra del Pt fino all’ex rivale di centrodestra del Psdb) intorno alla mitica figura di Lula, la Fenice della politica brasiliana. I numeri in parlamento dicono che il 77enne inizierà il suo terzo mandato al Palacio di Planalto confrontato con un’opposizione robusta, in grado di condizionare fortemente quelli che saranno i lineamenti che vorrà dare al suo governo.

C’è però un dato che va oltre il Brasile e che andrebbe analizzato. Negli ultimi anni in tutto il continente americano, da nord a sud, i partiti al potere non sanno più vincere. Macri in Argentina tre anni fa e ora Bolsonaro non sono stati in grado di farsi rieleggere alla fine del loro primo mandato (sarà un caso, ma la stessa sorte è toccata a Trump negli Usa). In Messico, Perù, Bolivia, Colombia e Cile a imporsi sono stati gli sfidanti di area progressista. L’eccezione che conferma la regola della svolta a sinistra in America Latina è l’Uruguay: a fine 2019 Lacalle Pou – di centrodestra – vinse le elezioni contro il candidato del governo di centrosinistra Daniel Martinez. Comunque anche a Montevideo c’è stato il trionfo dell’opposizione.

Perché in Sudamerica a predominare è l’alternanza tra fronti politici spesso agli antipodi? I conoscitori di quei luoghi sanno che laggiù tutto si vive con molta intensità: il caldo, il calcio, l’amore. Ma anche la povertà, l’insicurezza, le disuguaglianze. Votare diventa quindi uno strumento di cambiamento vero, anche radicale. Poi c’è da dire che la vita politica del Paese incide eccome sulla quotidianità delle persone: da un giorno all’altro si passa dal modello esportatore incentrato sull’agrobusiness a quello dell’industrializzazione per sostituzione delle importazioni; da una parità cambiaria col dollaro a una megasvalutazione valutaria; dall’allineamento sistematico con gli Stati Uniti alla costituzione di un fronte latinoamericano compatto. In mezzo a tutti questi voli pindarici c’è chi vive, chi lavora, chi fa una famiglia, magari anche chi fonda un’impresa. L’incertezza diventa una condizione di vita ed è forse questo uno dei motivi che rendono il tutto così speciale, così intenso.

La pandemia e le sue conseguenze socioeconomiche, la crisi legata alla guerra in Ucraina, la presenza di un governo Dem a Washington (molto impegnato a livello di politica estera con Cina e Russia e un po’ meno attento a ciò che succede nel "suo" cortile), le vene sempre aperte: sono diversi i fattori che spiegano perché oggi i popoli dell’America Latina cercano delle risposte in governi di centrosinistra. Popoli per i quali sono ancora freschi i ricordi del decennio d’oro del progressismo sudamericano, quello dei primi anni 2000, in cui milioni di persone uscirono dall’indigenza grazie alle politiche d’inclusione dei vari Lula, Kirchner e Morales.

Luiz Inácio Lula da Silva sarà di nuovo il presidente del Brasile a partire dal 1° gennaio 2023. Se riuscirà a pacificare il Paese e a riportarlo su un sentiero di crescita inclusiva e sostenibile, dopo quattro anni caratterizzati dall’irrazionalità di un odiatore seriale come Bolsonaro, l’America Latina potrebbe ancora una volta fare da specchio a un’Europa che si ritrova sempre più annebbiata dai discorsi sovran-populisti dell’estrema destra.

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