Estero

Il neoimperialismo di Putin, la resistenza di Kiev

A colloquio con lo storico Marcello Flores per capire le dinamiche di lungo periodo che possono spiegare l’invasione dell’Ucraina

(Keystone)

Il problema, quando si mettono insieme la storia e l’attualità, è che si rischia di fare una gran confusione. Come vediamo con la guerra in Ucraina c’è chi il passato lo distorce – come Vladimir Putin – e chi semplicemente lo ignora, ma anche chi rischia di leggerlo con lenti del tutto inadeguate. Per cercare di rimettere a fuoco quanto sta accadendo abbiamo parlato con Marcello Flores, già docente di Storia contemporanea e comparata e direttore del Master in diritti umani e studi sul genocidio all’Università di Siena. Flores era ieri a Lugano per un incontro organizzato dal Centro professionale tecnico di Trevano e moderato dal collega Rsi Roberto Antonini.

Un’invasione russa in Europa risveglia in alcuni le memorie della guerra fredda. Storici come Stephen Kotkin, però, invitano piuttosto a guardare al passato zarista. Quali sono gli elementi storici preponderanti per spiegare la guerra?

Credo che Kotkin abbia ragione. Se adottiamo questa visione più di lungo periodo riusciamo a scorgere la base dell’ideologia ‘neoimperiale’ di Putin: un approccio che pretende di coniugare la nostalgia per la grandeur dell’epoca zarista e per la forza di quella sovietica – simboleggiata dalla vittoria nella Seconda guerra mondiale – con una nuova visione di carattere mistico-religioso, contrapposta a un Occidente ritenuto decadente e incubata da ideologi che abbiamo sempre preso sottogamba, dato che si tratta di personaggi assolutamente improbabili. In questa prospettiva, l’espansionismo del Cremlino risponde non solo ad ambizioni di ripristino imperiale dopo lo choc dato dal crollo dell’Unione Sovietica – ancora vivo soprattutto tra gli ultrasessantenni più fedeli al regime –, ma anche alla penetrazione culturale di un Occidente sempre più popolare presso i giovani russi, che secondo i sondaggi sono sempre meno putiniani. L’invasione può essere pertanto letta anche come la risposta alla percezione di un pericolo, quello di una democrazia che in un Paese vicino come l’Ucraina stava avanzando a grandi passi, seppur in modo talora contraddittorio, rendendo sempre meno controllabile la stessa società civile russa. Vediamo insomma un intervento di reazione al ‘pericolo’ dei valori occidentali, un po’ come nell’Ottocento la Russia zarista aveva reagito all’avanzata del liberalismo e delle idee illuministe, ad esempio tramite le guerre con la Polonia e la terribile repressione della rivolta decabrista.

Indossando questi occhiali, come appare l’Occidente?

Accanto al senso di minaccia democratica, Putin interpreta questo frangente storico come un momento di debolezza per l’Occidente. E qui entra in effetti in gioco anche la guerra fredda. Dopo la sconfitta americana in Vietnam, l’Urss credette di poter rimettere in discussione l’ordine internazionale, intervenendo dapprima in Africa e poi in Afghanistan. Ora proprio il ritiro Usa da Kabul parrebbe letto come un segnale di opportunità per invadere l’Ucraina. A questa percezione contribuisce anche – insieme ovviamente all’errata valutazione della forza militare ucraina – la remissività dell’Occidente di fronte alle precedenti aggressioni in Georgia, in Crimea e nel Donbass.

Viene da chiedersi allora se il vero errore occidentale sia stato l’allargamento della Nato, come si sente ripetere un po’ a pappagallo, oppure proprio questa remissività.

Credo in effetti che la responsabilità principale dell’Occidente non stia nell’allargamento della Nato, peraltro arrivato semmai sotto la pressione da est dei Paesi che si erano liberati dal Patto di Varsavia: erano stati leader politici come il polacco Lech Walesa e il ceco Vaclav Havel a spingere per l’ingresso nella Nato, temendo un eventuale ritorno di Mosca alla dottrina Breznev (la dottrina ‘della sovranità limitata’ che giustificava gli interventi contro le ‘minacce al socialismo’ nei Paesi satellite, sdoganando episodi sanguinosi quali la repressione della Primavera di Praga nel 1968, ndr). Per di più la Nato è nelle stesse posizioni a est di oltre dieci anni fa, i suoi missili nella regione – a differenza di quelli russi a Kaliningrad – sono solo difensivi e un eventuale ingresso ucraino nell’alleanza sarebbe rimasto tutt’altro che immediato. La vera responsabilità occidentale semmai è stata quella di non avere aiutato la democratizzazione della Russia, preferendo fare affari con un Paese che allora si vedeva in difficoltà, fingendo perfino che gli oligarchi fossero legittimi rappresentanti di un libero mercato. Questa connivenza si è vista ad esempio in Italia, non solo con Silvio Berlusconi – il più intimo amico politico di Putin –, ma anche con Romano Prodi, che ha sempre permesso di accentuare la dipendenza energetica dal gas russo. Per decenni rafforzare democrazia e società civile è stato invece considerato secondario: quando sono stati assassinati una giornalista come Anna Politkovskaja nel 2006 o il leader dell’opposizione di destra Boris Nemcov nel 2015, non si è andati oltre qualche vaga deprecazione, mentre nessuno è sceso in piazza a protestare.

L’invasione potrebbe fungere da sveglia per l’Europa?

Posso solo augurarmi che abbia inizio una nuova riflessione che non può esaurirsi nelle risposte immediate, siano esse l’aumento della spesa militare o la creazione di una forza di reazione rapida europea con poche migliaia di soldati. Occorrerà elaborare strategie per una politica estera comune, creando meccanismi di integrazione capaci anche di superare il dogma dell’unanimità tra Stati Ue, rafforzando un’inclusione di Paesi come l’Ucraina per ‘cerchi concentrici’. Spero che le divergenze di priorità su altri versanti, come quello mediterraneo, non finiscano per impedire questi processi.

Sulla bilancia vanno messi anche gli Stati Uniti. A Putin Joe Biden ha dato del criminale di guerra e del macellaio, oltre ad auspicarne la rimozione dal potere. A che pro?

Non penso che si possano imputare certe frasi ad aspetti puramente emotivi. Però non riesco a capire a chi volesse rivolgersi Biden: se all’elettorato americano, per recuperare il suo appannato prestigio come ‘Commander in chief’, oppure all’establishment russo, invitandolo a liberarsi di Putin in cambio della riammissione nel sistema economico occidentale. Di certo queste parole hanno imbarazzato l’Europa: si tratta di cose che ha senso dire solo se, come alla fine della Seconda guerra mondiale, si ha l’intenzione di distruggere fino in fondo il nemico. Ma questo non appare possibile.

Quando Putin, che di fronte alle difficoltà sul campo appare aver ridimensionato i suoi obiettivi, riterrà opportuno far tacere i cannoni?

Io penso che l’obiettivo fondamentale sia il controllo di una regione unitaria che comprenda la Crimea e l’intero Donbass. Ma le trattative si fanno sempre in due, e dopo quello che sta subendo, sarà difficile per l’Ucraina cedere così tanto. Molto dipenderà anche dalle pressioni su Putin dell’establishment russo, che però, al di là dell’ovvio malcontento degli oligarchi per tutti i soldi che stanno perdendo, non conosciamo: non siamo in grado di valutare il livello di insoddisfazione e la percezione della guerra, ad esempio, presso i servizi segreti e i vertici militari.

Riguardo alla relazione tra Russia e Ucraina – uno dei tanti elementi di falsificazione storica all’interno della narrazione putiniana –, cosa ci dice il passato sui nodi venuti al pettine ora?

Senza andare indietro nei secoli, possiamo ricordare la sconfitta delle due repubbliche indipendentiste ucraine del 1919-1920 da parte dell’Armata Rossa. Quella sconfitta segnò la sottomissione totale del territorio ucraino, che aveva pagato il conto più alto nelle violenze della guerra civile russa. Ne seguirono cambiamenti demografici forzati e poi l’Holodomor, la terribile carestia del 1932-1933 che fece tra i 4 e i 6 milioni di morti: una carestia che Stalin non scatenò, ma che non fece nulla per contrastare pur di prendere per fame il nazionalismo ucraino e i contadini del Paese, i più contrari alla collettivizzazione. In quegli anni furono distrutte intere categorie come quella dei maestri elementari, che tramandavano la cultura nazionale. Oggi tutto questo riemerge, e rischia di esacerbare il conflitto identitario e quelle spinte nazionaliste che finora erano rimaste marginali a Kiev. Anche per questo sarà fondamentale che l’Europa contribuisca a tenere sotto controllo eventuali derive interne alla società ucraina.

Quali danni sta facendo la guerra al tessuto democratico ucraino?

È chiaro che la guerra rischia di indebolirlo. Pensiamo alla messa al bando dei partiti filorussi: una scelta piuttosto inevitabile, dato che costituiscono una quinta colonna del Cremlino, ma che porrà poi la questione di come reintegrare nel sistema le minoranze più vicine a Mosca. Il rischio è di tornare invece a simboli, statue, conflitti di un passato nazionalista rimasto ai margini negli ultimi anni.

Quale può essere l’eventuale ruolo post-bellico del presidente Volodymyr Zelensky?

Nei mesi precedenti il conflitto, il presidente ucraino stava perdendo molto rapidamente consensi, poi recuperati grazie al coraggio dimostrato in queste settimane. Resta da vedere come l’esito della guerra e le sue stesse decisioni potranno determinarne un eventuale ruolo post-bellico, sempre naturalmente che non sia rimpiazzato da un governo filorusso. In ogni caso anche lui dovrà affrontare le pulsioni nazionaliste esacerbate dall’invasione.

Intanto in Europa, in particolare in Italia, parecchi intellettuali relativizzano le colpe di Putin rispetto a quelle dell’Occidente, spesso con palesi castronerie. Come se lo spiega?

Credo che alcuni intellettuali, come Luciano Canfora, forniscano una lettura che mescola l’impreparazione sul tema a nostalgie comuniste: Canfora è filologo, non storico, legge la guerra con gli occhi di Tucidide e del confronto tra Atene e Sparta, in più appare ancora molto legato all’ideologia che ispirava il blocco sovietico. Diverso è il caso di filosofi come Donatella Di Cesare o giornalisti come Barbara Spinelli, che nella loro sistematica negazione della storia – pensiamo solo all’insistenza nel definire golpe una rivoluzione popolare così partecipata come l’Euromaidan – mi paiono mossi da un riflesso pavloviano tipico di una sinistra che non è mai stata democratica fino in fondo: quello che spinge a sposare tutto quanto viene percepito come antioccidentale. Infine ci sono gli pseudointellettuali come Alessandro Orsini: un personaggio difficile da prendere sul serio, visto che ha scritto saggi su decine di temi diversi, peraltro senza mai aggiungere nulla di nuovo.

Il dibattito nella sinistra italiana è anche sulla Resistenza: c’è chi nega che quella ucraina si possa paragonare al sacrificio dei partigiani.

Su certe cose si può e si deve discutere: sull’opportunità o meno di armare gli ucraini, sulla differenza tra un esercito come quello ucraino e una resistenza ‘civile’ come quella italiana. Ma è assolutamente pretestuoso cercare una differenza ‘ontologica’ tra le due resistenze, entrambe rivolte a un aggressore per difendere e riaffermare la propria libertà. Poi si può anche chiedere agli ucraini di arrendersi pur di evitare una terza guerra mondiale – una posizione che mi sembra moralmente ignobile, ma comprensibile nella misura in cui non si appoggia su bestialità storiografiche –, però non si può negare che anche quella ucraina sia a tutti gli effetti una resistenza.

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