laR+ L’intervista

Con Ian Anderson negli anni del Prog

Un nuovo album, ‘The Zealot Gene’, nel 50esimo di ‘Thick as a Brick’: i Jethro Tull a Lugano domenica 27 novembre con ‘The Prog Years’

Ian Anderson, il 27 novembre al Palacongressi (biglietti su www.biglietteria.ch e presso i rivenditori autorizzati
(WIll Ireland)
15 febbraio 2022
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“Io credo che i punk fossero convinti di essere la tripla vaccinazione che li avrebbe liberati per sempre dall’orribile virus del prog rock. Sfortunatamente, come accade nella realtà delle cose, il virus arretra e poi torna, in un’altra forma”. Stando allo scozzese Ian Anderson al Telegraph di qualche settimana fa, è anche per questioni ‘scientifiche’ che ci sarà consentito di assistere a ‘Jethro Tull - The Prog Years’, un pezzo di storia della musica moderna in concerto a Lugano domenica 27 novembre alle 21 al Palazzo dei Congressi, per gentile concessione di Horang Music (biglietti su www.biglietteria.ch e presso i rivenditori autorizzati).

Nati nel 1967 a Blackpool, Inghilterra, i Jethro Tull sono una band da sessanta milioni di dischi venduti nel mondo a partire da ‘This Was’, esordio rock-blues del 1968. Un paio di pietre miliari del progressive come ‘Aqualung’ (1971), ‘Thick as a Brick’ (1972) e ‘A Passion Play’ (1973), poi la svolta folk rock aperta da ‘Songs from the Wood’ (1977) e quella elettronica inaugurata da ‘A’ (1980), pensato come debutto solista di Anderson ma imposto ‘Tull’ dall’etichetta. Un unico Grammy, per l’album ‘Crest of a Knave’ (1987), premio alla miglior performance rock/heavy metal di quell’anno, migliore di Metallica e AC/DC (non senza qualche ilarità dei fan della prima ora).

Dati per defunti dopo qualche migliaia di concerti dal suo stesso fondatore nel 2014, tornati nel 2017 per festeggiare il Cinquantennale, i Jethro Tull hanno da poco pubblicato ‘The Zealot Gene’, 19 anni dopo ‘The Jethro Tull Christmas Album’, ma con l’Anderson solista a occupare l’arco di tempo prima del ritorno in una generale negazione del ‘less is more’ (meno è meglio). «Riconosco che non c’è troppa differenza tra un album solista e uno dei Jethro Tull», spiega Anderson. «Forse gli album più permeati da quell’acustica tipicamente cantautorale stanno meglio sotto un’egida solistica. E al contrario, pensando alla scrittura di un album d’insieme, meglio la firma Jethro Tull». Un ‘per me pari sono’ che non necessita di aggiunte e che rimarca l’identificazione tra band e band leader che dura sin dall’inizio, al netto di nomi come Martin Barre, per esempio, al suo fianco dal 1968 al 2012, più a lungo di chiunque altri.

Mr. Anderson, lei non è una persona da clamorosi addii e improvvisi ritorni…

È vero, soprattutto durante il periodo pandemico. In questi ultimi anni con la mia etichetta abbiamo lavorato a diversi box set, al biografico ‘The Ballad of Jethro Tull’; in novembre è uscito ‘Silent Singing’ (tutte le liriche, con band e come solista, in un unico libro fotografico in cui anche le foto sono le sue, ndr). C’è sempre stato un nuovo album più o meno ogni 2 o 3 anni. Certo, fisicamente, non ho più l’energia per essere coinvolto 24 ore su 24, 365 giorni l’anno come accadeva negli anni settanta. Rispetto ad allora, oggi posso ritagliarmi del tempo per una vita privata, per guardarmi intorno, per fare le cose che fanno tutti, come andare in vacanza, per esempio, o avere un hobby al di fuori della musica, che mi ha sempre preso tutto il tempo.

Per hobby intende la fotografia?

Sì, la fotografia è uno di quelli. Non posso considerarmi un esperto, ma ne faccio uso in modo professionale, con la stessa attenzione che dedico al mio flauto. Considero la fotografia qualcosa di più di un hobby.

È per questo che ‘The Zealot Gene’ si è preso cinque anni di tempo?

L’album è stato scritto nel 2017, per intero, in quell’anno abbiamo registrato sette tracce, di cui quattro completate. Gli impegni dal vivo ci hanno portati sino alla pandemia, che ha dilatato ulteriormente i tempi. L’ho completato durante l’isolamento nei primi mesi del 2021, aggiungendo parti ricevute in remoto dagli altri componenti della band. Posso dire che il tempo che si è preso quest’album non supera comunque la media dei precedenti.

I riferimenti biblici in ‘The Zealot Gene’ sono evidenti, ma lei considera “semplicistico’ definirlo un album sulla Bibbia. Perché?

Perché il contenuto del disco è un insieme di canzoni basate sulle emozioni umane, quelle più dirompenti, rabbia, gelosia, vendetta e avidità da una parte, e le più alte forme d’amore dall’altra, amore inteso come lealtà e compassione, concetti che ho incontrato leggendo la Bibbia. A fianco dei testi ve ne sono riportati dei brevi estratti.

Così come invita a non mangiare carne senza dirsi vegano, lei scrive di religione pur non definendosi una persona religiosa…

Il mio può forse definirsi un tentativo di esserlo in entrambi i modi. Mi ritengo un moderato, non amo mangiare carne ma spesso vi è una sorta di obbligo sociale, e dunque non voglio sedermi al tavolo di qualcuno e rifiutarmi di mangiare il cibo che mi offre. Quanto alla religione, mi considero una persona sempre più spirituale, che già a scuola aveva iniziato a interessarsi del confronto tra religioni di popoli differenti, tra credo e riti differenti, e non ha mai smesso di cercare. Ho speso ore e ore leggendo libri complessi su materie filosofiche e spirituali senza sentire il bisogno di seguire alcun rituale pratico di fede, perché credo nella probabilità dell’esistenza di un Gesù di Nazareth che fece più o meno quanto descritto nella Bibbia, ma il resto sono possibilità.

Non ho certezze su aspetti come creazione, religione, fede e credo religiosi. Vado nella direzione di quel che è tradizionalmente chiamato panteismo, non credo in un dio interventista che ci guarda costantemente dall’altro e risponde alle nostre preghiere oppure le disattende, e nemmeno alla sua personificazione, un tentativo che in modo un po’ ridicolo ci accompagna sin dall’inizio dei tempi, meno credibile di chi alla divinità non attribuisce alcuna forma, come l’islamismo o l’induismo. Per motivi che non conosco, la gente continua invece a chiedere qualcosa di visibilmente tangibile, da poter guardare alzando la testa. Trovo più interessante chiedermi a che punto siamo come specie umana. Sarebbe difficile per me essere cristiano, cattolico cristiano in particolare, non essendo etichettabile come tale nel senso convenzionale, pur restando un forte sostenitore della cristianità.


‘The Zealot Gene’, il nuovo album


‘In edicola’ nel marzo del 1972

‘Thick as a Brick’

Un pitonesco concept album

Quinto album in studio dei Jethro Tull, ‘Thick as a Brick’ uscì il 3 marzo di cinquant’anni fa nella sua forma musicale di traccia unica suddivisa tra i due lati del vinile, e in quella grafica di vero e proprio quotidiano cartaceo, l’ipotetico St. Cleve Chronicle sulla cui prima pagina appare il piccolo Gerald Bostock, anch’egli ipotetico, premiato per un altrettanto ipotetico poema epico del quale l’album sarebbe l’adattamento musicale. I testi sono invece opera di Anderson, in parte basati sulle proprie esperienze d’infanzia, farciti d’ironia tagliente in mezzo alla varietà ritmica e di temi musicali propria del progressive rock. Classico del genere, dal seguito datato 2012 con Bostock diventato adulto, torniamo dall’autore…

‘Thick As A Brick’ è una specie di ‘adesso vi faccio vedere io cos’è un concept”…

‘Thick as a Brick’, anche se qualcuno non lo considerò così ovvio, era una piccola parodia di quello che oggi intendiamo per concept album. Dietro il gioco c’era comunque un messaggio abbastanza serio, ovvero la complessità del diventare adulti nel dopoguerra, con determinati valori, principi e riferimenti a rischio confusione. C’è un messaggio su come i media del tempo, fumetti e romanzi, ritraevano il mondo di un bambino nella sua fase di crescita, qualcosa che ritroviamo oggi in una certa distorsione prodotta dai social media nel riflettere attitudini politiche, sessuali, da cui il bullismo dilagante e il farsi male reciprocamente postando violenza. Portato al presente, ‘Thick as a Brick’ non tratta d’infanzia ma di crescere un’infanzia, con gente intorno come Donald Trump, che tra leader nazionali e nazionalisti non è l’unico furfante, gente potente che usa i social media per controllare i media tradizionali, tattica unitaria per dividere anziché unire.

Possiamo chiamare quel disco una sorta di cavallo di Troia?

Sì, è un passaggio segreto verso la parte più seria e nascosta del vivere. Tramite l’umorismo, spesso la gente riesce a entrare nel tuo mondo a cuor leggero per uscirsene con un’occasione di riflessione. Penso a ‘Dr. Strangelove’ di Stanley Kubrick (‘Il dottor Stranamore’, 1964, ndr), costruito per ridere ma all’interno di una realtà agghiacciante. Dal cinema si esce con pensieri di una certa pesantezza a proposito di come i personaggi del film non siano tanto distanti dalla Guerra Fredda e nemmeno dal nostro quotidiano, con tutte le fastidiose eco della stessa assurda, pazza realtà con cui ci confrontiamo ogni giorno.

Cosa scriverebbe oggi il piccolo Gerald? Di cosa parlerebbe il suo poema?

Non mi sono mai considerato un poeta ma un autore di testi legati alle canzoni. La poesia è pensata per essere letta o declamata e io ho sempre scritto nell’ottica dell’avere una melodia da cantarsi con l’aiuto di un gruppo di musicisti. In ‘Thick as a Brick’, Gerald era un mero pretesto per avere canzoni affidate a un giovane ragazzo immaginario. Ho scritto poesie ma privatamente e non finalizzate alla pubblicazione, per mio puro divertimento, forse un paio di volte. Ma potrebbe essere il mio progetto per il 2023.

Thick As A Brick’ ha un dichiarato approccio pitonesco, o pythoniano…

I Monty Python sono stati una delle grandi influenze sul mio lavoro. Molti dei musicisti con i quali mi sono ritrovato a suonare sono cresciuti con essi e ‘Thick as a Brick’ porta dentro quell’essenza, l’umorismo inglese surreale dei primi Settanta. I Monty Python furono il veicolo che portò quell’idea.

E noi le dobbiamo, indirettamente, l’esistenza dei Monty Python al cinema…

È corretto, fui uno degli investitori di ‘Monty Python and the Holy Grail’ (‘Monty Python e il Sacro Graal’, 1975, ndr). Ho un solo piccolo dolore: il non aver potuto investire denaro in ‘Monty Python’s Life of Brian’ (‘Brian di Nazareth’ nella versione italiana, ndr), che a mio parere resta un’opera molto più omogenea e significante, ma a quella produzione non ebbi mai nemmeno la possibilità di avvicinarmi. In quei giorni John Cleese mi disse che i Monty Python erano venuti a sapere che gli investitori di ‘Holy Grail’ non avrebbero investito ulteriormente e che George Harrison si era offerto di coprire tutte le spese del nuovo film. Io chiesi chi mai avesse detto loro che i vecchi investitori non avrebbero investito nel film nuovo. E John rispose: “George Harrison…”.

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