Commento

L'immagine è tutto (più della vitamina C)

Le cure vitaminiche del dottor Ostinelli che ci invita a lasciar perdere social, tv e giornali per fuggire dalla paura. Perché, al contrario, è importante averne.

Elena Pagliarini, Ospedale di Cremona
18 marzo 2020
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“Non continuate a guardare social, giornali e speciali in tv: immergervi nella paura vi fa ammalare di più”. Ci accompagna da un paio di giorni il volto rassicurante del dottor Roberto Ostinelli, la cui filosofia si sta diffondendo dal Mendrisiotto per raggiungere tutti noi. “Dall’Italia stiamo importando il panico, le paure, la strumentalizzazione mediatica per vendere notizie” dice dalla sua pagina (guarda caso) social, tra molti “grazie” e qualche “vaffa”. Comunque ligio all’importanza dell’attenersi alle misure di distanza sociale, delle attuali duemilacinquecento vittime fatte dal virus nell’Italia dalla quale staremmo importando il panico, il dottor Ostinelli non specifica quale sia la percentuale dei morti per paura; quanti, dei cinquanta decessi giornalieri allineati sulle dieci pagine funebri dell’Eco di Bergamo, per esempio, siano da attribuirsi alla sensazione di precarietà. Perché qualche dato ci rassicurerebbe. Il medico ticinese ci perdonerà se per il momento sorvoliamo sul suo “mangiate frutta e verdura e assumete vitamina C e vitamina D” e sull’altrettanto suo “esponetevi almeno mezz’ora al giorno al sole, che è la prima fonte di guarigione per aiutare il sistema immunitario a reagire”.

Ci perdonerà, l’Ostinelli, cognomen omen, se contestiamo il suo ostinarsi sull’evitare i social, i giornali (Il Corriere dei Poveri, come lo chiama lui, anche detto “della Sera”) e la tv, tutte fonti dalle quali in questi giorni, oltre alla compagnia, riceviamo le immagini e le gesta di chi fa medicina sul campo rischiando la vita quotidianamente. “Image is everything”, l’immagine è tutto recitava anni fa lo slogan di un noto marchio legato alla fotografia (il testimonial, il tennista Andre Agassi, ne fece una malattia perché il concetto oscurava l’atleta). E l’immagine di Elena Pagliarini, infermiera dell’ospedale di Cremona accasciata sulla sua scrivania alla fine di un interminabile turno, è tutto; i sopravvissuti più giovani al virus, che dal letto d’ospedale, con l’aiuto del respiratore, possono finalmente raccontarci perché la cosa ci riguarda tutti, sono tutto. In mezzo allo splendido darsi forza col sorriso, in mezzo all’ondata di autoironia da reclusi in casa che crea solidarietà, vedere gli effetti del male per quelli che realmente sono è ulteriore informazione che si aggiunge ai flyer, è prevenzione che si aggiunge alle regole. È tutto. Anche se fa paura.

Quanto all’importanza delle immagini, che ci abbia dato fastidio oppure no guardare le cose in faccia da quando il male si racconta anche con macchine fotografiche e affini, dobbiamo alla foto del piccolo Aylan Kurdi, a faccia in giù nella sabbia della spiaggia turca di Bodrum, la presa di coscienza del dramma umanitario dei migranti. “L’unica cosa che potevo fare – dichiarò Nilufer Demir, autrice dello scatto – era fare in modo che il suo grido fosse sentito da tutti”. Allo stesso modo, il pianto della bimba honduregna accanto alla madre perquisita al confine tra gli Stati Uniti e il Messico sintetizzò meglio delle parole l’imbecillità umana capace di partorire una legge sulla separazione delle famiglie. “In quel momento di angoscia della piccola – racconta l’autore John Moore, vincitore del World Press Photo of the Year 2019 la cui mostra è transitata anche da Monte Carasso – c’era un momento che andava raccontato”.

Magari il dottor Ostinelli no, ma anche raccogliendo il suo invito a non metterci le fette di coronavirus sugli occhi, noi rivendichiamo un sacrosanto, costruttivo, educativo diritto a – e dovere di – avere paura. La paura che somministrata ai menefreghisti serve più della vitamina C (menefreghisti intesi come “tecnici di ascensori positivi al virus che vanno in giro a fare riparazioni e in Ticino se la cavano con una ramanzina mentre in Cina sarebbero in galera”).

Chiudiamo con queste parole: “Io non sono un infettivologo, ma sono un medico che si fa qualche domanda in più”. Facendoci anche noi qualche domanda in più, per la prima metà della sua affermazione prendiamo il dottor Ostinelli alla lettera. Anche nel suo caso, in fondo, l’immagine è tutto (la camicia arancione con inserti bianchi verticali sotto il maglione fantasia non è proprio il massimo).

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