Intervista all'ex magistrato ticinese finito sotto scorta, che in ‘Verità irriverenti’ (Casagrande) parla della Svizzera e di alcune sue scelte politiche
Nel 2008, dal libro dell’ex procuratrice del Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia Carla Del Ponte (“La caccia. Io e i criminali di guerra”, Feltrinelli) si viene a sapere che negli anni 90 l’Uck (l’Esercito di liberazione del Kosovo) avrebbe commesso crimini gravissimi ai danni di serbi e kosovari albanofoni accusati di collaborazionismo con Belgrado. I fatti si sarebbero svolti soprattutto in Albania e riguarderebbero fra l’altro un traffico di organi. Da lì, l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa chiede a gran voce l’istituzione di una commissione d’inchiesta.
Come già successo per i rapporti sulle carceri segrete della Cia in Europa, un’altra caccia, quella a un relatore, si conclude con la designazione di Dick Marty secondo un copione già visto: svizzero, neutrale, ex magistrato con esperienze internazionali, già relatore di rapporti molto delicati… Un profilo perfetto, al quale il ticinese non potrà sottrarsi.
Dick Marty, sarà proprio quell’impegno, con le sue risultanze, a determinare, 12 anni dopo (dicembre del 2020) la necessità di mettere lei e la sua famiglia sotto scorta armata. Nel suo libro “Verità irriverenti”, appena uscito per Casagrande, lei ripercorre quell’esperienza esprimendo gratitudine per l’apparato di sicurezza, ma anche grande inquietudine per le modalità di conduzione dell’inchiesta sulle origini delle minacce nei suoi confronti. Innanzitutto, chi la voleva morto e perché?
Nei primi giorni del 2011 rendo note le conclusioni del rapporto che ho allestito su incarico del Consiglio d’Europa su presunti gravi crimini commessi da reparti dell’Esercito di liberazione del Kosovo contro civili serbi e albanofoni accusati di collaborazionismo. Sono stati raccolti numerosi e convergenti indizi a carico anche di persone con responsabilità nelle più alte cariche dello Stato, tanto che ho chiesto che venisse aperta un’indagine penale internazionale. Il rapporto è stato approvato da una schiacciante maggioranza dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Confrontati a un rapporto che elenca fatti e nomi precisi, nonché al chiaro voto dell’Assemblea, la comunità internazionale decide di nominare un procuratore, un diplomatico americano, affiancato da 40 specialisti. Nell’estate del 2014, il procuratore comunica che le sue indagini giungono sostanzialmente alle medesime conclusioni del relatore del Consiglio d’Europa. Ma occorrerà aspettare fino alla fine del 2020, per l’emanazione dell’atto di accusa (crimini di guerra e altro) e l’arresto del presidente del Kosovo, nonché di diverse persone già citate nel mio rapporto di dieci anni prima. Per venire alla sua domanda, è proprio in questo periodo che alcuni nazionalisti serbi radicalizzati, con appoggi nell’apparato di sicurezza dello Stato, decidono di assassinare il relatore del Consiglio d’Europa. Ciò, sapendo che tutti avrebbero dato la colpa agli estremisti kosovari.
Poi c’è la brutta storia del collaboratore di giustizia…
Sì, era l’infiltrato di una polizia di un altro Paese occidentale, che casualmente era venuto a conoscenza del piano criminoso orientato al sottoscritto, e aveva così informato le autorità svizzere. Queste ultime avevano preso molto seriamente la minaccia, al punto da mettere in atto un dispositivo di protezione che, per intensità e durata, è senza precedenti nel nostro Paese, con la mobilitazione di servizi speciali dell’Esercito e di diversi altri cantoni. Purtroppo, a questo spiegamento non è corrisposta un’inchiesta degna di questo nome. Basti dire che gli inquirenti federali hanno aspettato il mese di aprile del… 2022 per recarsi a Belgrado!
Questa tempistica cosa le suggerisce?
Mi sembra evidente che interessi di altra natura (i cosiddetti “interessi superiori dello Stato”) hanno prevalso sull’imperativo legale di ricercare la verità e perseguire i colpevoli. Nemmeno è ipotizzabile che il Dipartimento degli affari esteri non fosse a conoscenza della vicenda. Il Consiglio federale ne aveva per altro già parlato nel dicembre del 2020, dovendo decidere l’impiego di reparti speciali dell’Esercito. D’altra parte, e ben al di là della mia persona, l’informazione, considerata molto seria, secondo cui servizi di Stati stranieri erano verosimilmente coinvolti in un tentato assassinio di un ex magistrato e relatore di un’istituzione internazionale, non poteva non rimbalzare in seno al Dfae. Altro dettaglio: il responsabile dei servizi serbi di sicurezza, come ministro dell’Interno aveva incontrato il nostro ambasciatore a Belgrado. Ma non si è saputo se la vicenda sia stata discussa. All’epoca ero ancora sotto alta protezione. Ma al peggio non c’è fine: contro questo responsabile serbo le autorità statunitensi hanno preso delle sanzioni, accusandolo di corruzione e di contatti con il crimine organizzato.
Del suo rapporto, nel libro lei scrive che “è venuto a disturbare una quiete voluta dalle autorità internazionali che di fatto controllano il Kosovo e che non potevano non sapere che una pace duratura, e la riconciliazione, richiedono un doloroso ma necessario processo di ricerca della verità”. Verità che spingerà appunto l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa a chiedere l’apertura di un’inchiesta giudiziaria. Quali sono le verità che era meglio non rivelare? E quali sono le “autorità internazionali” implicate?
Chiamato a indagare sulle prigioni segrete della Cia in Europa e sui crimini dell’Uck, senza mezzi e senza alcun potere, avevo chiaramente percepito, man mano che mi avvicinavo alla verità, una sorda ostilità da parte della maggior parte degli Stati europei; sì, anche da parte del mio Paese. In entrambi i casi si trattava di difendere la narrazione ufficiale dei fatti, secondo cui la lotta al terrorismo si era svolta nel pieno rispetto della legalità e nei Balcani si stava imponendo la pace e la ritrovata concordia, che non si dovevano disturbare. Purtroppo, anche nelle democrazie c’è sempre più intolleranza nei confronti di chi ha un pensiero critico e rivela le ombre o le falsità del racconto ufficiale. Significativi sono l’avversione e il malanimo che si fanno strada anche nel nostro Paese nei confronti delle Ong (ironia grottesca, proprio negli ambienti di chi pretende di ispirarsi dei principi liberali); in particolare, quelle che documentano e denunciano scandali che le istituzioni non vedono o non vogliono vedere. E lo stesso vale nei confronti di chi ha il coraggio, dall’interno, di denunciare abusi e crimini di cui vengono a conoscenza: sono considerati traditori e non cittadini responsabili.
Fra le accuse che le erano state mosse v’era quella secondo cui lei sarebbe stato uno strenuo oppositore dell’indipendenza unilaterale del Kosovo – indipendenza contestata dalla Serbia – che la Svizzera aveva invece perorato con forza. Uno “slancio” che lei, in qualità di presidente della Commissione della politica estera del Consiglio degli Stati, aveva cercato di frenare con quello che appare oggi un esercizio di semplice buonsenso. Ci ricorda come si erano svolti i fatti e perché il Consiglio federale aveva dato la netta impressione di voler forzare i tempi?
La mia asserita opposizione all’indipendenza del Kosovo è una delle tante leggende o, meglio, verità totalmente travisate che da anni alcuni mettono in circolazione con caparbietà. Vero è che ho criticato le modalità precipitate, e contrarie al diritto internazionale, messe in atto dopo un intervento militare (peraltro illegale) e l’inusitata insistenza della capa del Dfae perché si decidesse immediatamente nel senso voluto dalla Segreteria di Stato statunitense. A mio parere non era molto serio proclamare l’indipendenza di un Paese appena sconvolto dalla guerra, senza che vi fosse una vera società civile e senza la minima capacità tecnica e amministrativa di far funzionare un’amministrazione statale. Pensavo, e lo penso ancora, che un periodo di transizione fosse necessario, sotto amministrazione internazionale, per poi passare gradualmente all’indipendenza, evitando un confronto frontale con la Serbia. Ancora oggi, a decenni di distanza, il Kosovo vive un’indipendenza limitata (sono presenti soldati e numerosi funzionari internazionali), la corruzione è ancora importante e moltissimi giovani non aspettano che l’occasione di emigrare. Il nuovo Stato non è ancora riconosciuto da tutti i membri dell’Ue e non può far parte a pieno titolo del Consiglio d’Europa. In Kosovo, ma anche in Svizzera, ho conosciuto persone che vengono da quella regione. Essi, come tutta la popolazione kosovara, meritavano di meglio. Le soluzioni imposte a tavolino, nelle Cancellerie lontane dalla realtà, raramente funzionano.
Più avanti, riflettendo sul federalismo svizzero (che lei considera “una delle chiavi del successo elvetico”), sostiene che “si sta lentamente svuotando di contenuto perché è in corso da anni un’inesorabile dinamica di trasferimento di competenze” dai 26 cantoni, alcuni dei quali piccolissimi, alla Confederazione. E giunge ad auspicare che si giunga a ridisegnare l’assetto dei cantoni, “riducendone il numero per creare entità maggiormente in grado di assumere compiti importanti e sempre più complessi”. La nostra democrazia è pronta anche solo per considerare questa prospettiva?
Certo che se ci si limita a discorsi e proposte di cui sappiamo già che raccoglieranno un applauso immediato, non andremo mai in avanti. Ruolo della politica è avere delle visioni, spiegare la complessità e la portata delle sfide attuali. Attendere e subire le pressioni altrui è la peggior politica possibile; anzi, è la sua negazione. La storia recente è piena di esempi (voto alle donne, beni ebraici, Swissair, segreto bancario, Ubs, Crypto, Credito svizzero, multinazionali, Europa). In tutti questi casi abbiamo reagito con ritardo nonostante chiari segnali di allarme. Il federalismo fa parte della nostra identità e in quanto tale va salvaguardato e custodito con cura. Tuttavia, da decenni è in corso un trasferimento continuo di competenze, spesso confuso, dai Cantoni verso la Confederazione. Molti piccoli Cantoni non sono semplicemente più in grado di assumere la nuova complessità. Un profondo ripensamento, senza preconcetti, mi sembra urgente.
In “Verità irriverenti” c’è anche una critica al sistema bancario, all’atteggiamento del governo che ne ha facilitato il rimodellamento fino alla situazione odierna, con un solo grande istituto bancario come Ubs, definito “un mostro con una cifra di bilancio che corrisponde a più del doppio del Pil della Svizzera”. Quali sono secondo lei i rischi cui andiamo incontro se la politica elvetica non rivede, come lei auspica, le sue priorità orientate alla piazza finanziaria?
Altra leggenda: sarei un nemico della piazza finanziaria (lo ero certamente di quelle banche che accoglievano valigiate di banconote senza preoccuparsi della loro provenienza, e aggiungo che sono stato per quasi vent’anni presidente del comitato di auditing di una banca che figura tra le dieci più importanti del Paese). Non ho niente contro Ubs o i suoi dirigenti. Ma di transenna osservo che la ripresa del Cs da parte di Ubs è avvenuta con l’intervento e la corresponsabilità dello Stato, in modo niente affatto trasparente. Ciò è preoccupante per una democrazia e uno stato di diritto. Soprattutto, la presenza di un simile colosso non può non condizionare la politica svizzera e la sua stessa sovranità, oltre a costituire un rischio sistemico colossale per tutto il Paese. Ricordo che l’abolizione del segreto bancario, ancora sostenuto dai tre quarti della popolazione poco prima del suo abbandono, è stata decisa dalle banche o, meglio, dal Tesoro statunitense. Questo, in barba agli slogan di coloro che affermano che “a casa nostra i padroni siamo solo noi”. Il mondo, che ci piaccia o no, evolve in altro modo. Guardiamo almeno la verità in faccia.