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L’accordo con l’Indonesia ‘non è affatto ambizioso’

Il consigliere nazionale Nicolas Walder (Verdi) deplora l’assenza di norme vincolanti in materia di sostenibilità e diritti umani.

Nicolas Walder
(Keystone)
12 gennaio 2021
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Dannoso per l’ambiente e per l’economia locale, sia in Svizzera che nel paese asiatico. È lapidario il giudizio portato dal comitato referendario ‘Stop olio di palma’ sull’accordo di libero scambio tra la Svizzera e l’Indonesia (cfr. infografia), di cui la materia prima – presente, in modo più o meno visibile, in innumerevoli prodotti alimentari che consumiamo quotidianamente – rappresenta l’aspetto più controverso. La campagna per la votazione del 7 marzo è partita oggi. ‘laRegione’ ne ha parlato con il consigliere nazionale ginevrino Nicolas Walder (Verdi), membro del comitato.

Nicolas Walder, la vostra è un’altra crociata ideologica contro il libero scambio e il neoliberismo?

No, affatto. I Verdi hanno sempre cercato di migliorare quest’accordo con l’Indonesia. Su una cosa in particolare non transigiamo: le disposizioni sulla sostenibilità ambientale e i diritti umani devono avere carattere vincolante.

Cosa intende?

L’accordo prevede un meccanismo di composizione delle controversie che copre buona parte del suo campo d’applicazione: se la Svizzera e l’Indonesia non rispettano le regole, possono essere oggetto di una procedura d’arbitrato e andare incontro a sanzioni. Questo non è il caso se uno degli Stati firmatari non rispetta le norme relative alla sostenibilità, ai diritti umani e ai diritti del lavoro. L’accordo specifica esplicitamente che questi aspetti non sono sottoposti al meccanismo di composizione delle controversie. Così, ad esempio, una comunità locale spoliata delle sue terre per far posto a una piantagione di palma da olio ‘certificato’ non potrà far sentire la propria voce nel quadro di una procedura arbitrale. Se i due Paesi fossero davvero seri nella loro volontà, dichiarata, di importare ed esportare olio di palma prodotto in modo sostenibile, perché non hanno accettato che il capitolo sulla sostenibilità venisse sottoposto alla procedura arbitrale?

Il consigliere federale Guy Parmelin parla di un accordo «di nuova generazione».  

La novità è che quest’accordo ha una portata molto ampia. Ma per quanto riguarda la sostenibilità e i diritti umani, non è affatto ambizioso. Perché, come detto, in questi ambiti non vi è alcuna disposizione vincolante. Non siamo molto più avanti dell’accordo di libero scambio con la Cina [in vigore dal 2014, ndr]. A mio avviso non si può parlare di una rottura rispetto al passato. Parlerei semmai di una modesta evoluzione: nella giusta direzione, ma ben lungi dall’essere sufficiente. Guy Parmelin ha ascoltato le argomentazioni della Coalizione olio di palma, ha preso atto che sei cantoni chiedevano che questo fosse escluso dall’accordo. E dopo aver constatato che l’Indonesia non voleva un accordo senza olio di palma, si è arrivati a questa soluzione. Una soluzione che non fa altro che limitare i danni.

Public Eye, Greenpeace e la Federazione romanda dei consumatori, solitamente battagliere, non combattono l’accordo.

Non lo sostengono nemmeno, però. Tranne il Wwf, che è parte in causa nel sistema di certificazione, nessuna organizzazione ambientalista o di difesa dei diritti dell’uomo lo sostiene.

Public Eye però fa notare come l’accordo con l’Indonesia “non instaura il libero scambio per quanto riguarda l’olio di palma”. Inoltre, per la prima volta in un trattato commerciale firmato dalla Svizzera, viene accordato un trattamento doganale preferenziale a un bene prodotto in modo sostenibile. Un approccio innovativo la cui potenzialità potrebbe venir pregiudicata da un ‘no’ il 7 marzo.

Al contrario: un ‘no’ critico come il nostro rafforzerebbe la posizione del Consiglio federale in futuri negoziati per accordi di questo tipo, col Mercosur e la Malaysia ad esempio. L’accordo con l’Indonesia non è un accordo di libero scambio ‘puro’, è vero. L’olio di palma sarebbe l’unico prodotto a venire regolamentato, in particolare attraverso dei contingenti all’importazione e una riduzione dei dazi doganali su quello ‘sostenibile’. Ma la problematica della sostenibilità e dei diritti umani si pone anche per tutti gli altri prodotti. Prenda i pesticidi: vengono impiegati anche per coltivare mango, papaya, cocco e altro. 

Voi temete anche un’ulteriore pressione sui prezzi dell’olio di colza e dell’olio di girasole svizzeri. Ma i dazi doganali sull’olio di palma sostenibile non verranno aboliti, solamente ridotti del 20-40%.

Oggi i contadini svizzeri subiscono già una forte concorrenza dall’olio di palma, nonostante i dazi doganali esistenti. Questo problema verrà probabilmente accentuato a causa di questo accordo.

L’accordo prevede che il volume totale importato nella Confederazione rimanga stabile: 10mila tonnellate, che verranno aumentate a 12’500 nell’arco di cinque anni.

Attualmente, la maggior parte dell’olio di palma importato in Svizzera proviene dalla Malaysia e non è certificato. Con questo accordo, fissiamo un contingente generoso per l’Indonesia. L’olio di palma certificato indonesiano andrà ad aggiungersi a quello malesiano? Oppure lo rimpiazzerà in parte, come sostiene Guy Parmelin? Non lo sappiamo. Io temo che alla fine avremo un forte aumento del volume complessivo di olio di palma importato. Credo inoltre che, per una questione di immagine e di costi, avremo delle aziende che decideranno di far capo a olio di palma certificato al posto di olio di girasole o di colza. Non dobbiamo dimenticare che già oggi l’olio di palma, malgrado i dazi relativamente elevati, è meno caro di qualsiasi altro olio sul mercato.

La certificazione sull’origine dell’olio di palma: un altro tasto dolente?

L’ordinanza già inviata in consultazione dal Consiglio federale propone quattro sistemi di certificazione, due dei quali sono problematici: i criteri non sono sufficientemente severi. Va ricordato che olio di palma ‘certificato’ non vuol dire olio sostenibile: significa olio un po’ meno problematico di quello non certificato, niente di più. Un altro problema, poi, è che i controlli sul posto – per quanto riguarda il rispetto dei diritti umani, la deforestazione, l’uso dei pesticidi o altro – sono ampiamente insufficienti. Infine, l’unica ‘sanzione’ cui va incontro un’azienda svizzera che dovesse importare olio di palma ‘normale’ quando invece è ‘sostenibile’, è che per quella partita non beneficerà della riduzione dei dazi doganali.

L’Indonesia non è un partner affidabile per quanto riguarda l’applicazione degli standard ecologici e sociali?

Una legge adottata nel 2020 in Indonesia [dove circa un milione di ettari di foresta pluviale devono far spazio ogni anno a monoculture come l’olio di palma, ndr] riduce gli obblighi per le imprese in materia di protezione sociale, licenziamenti e sostenibilità. Con questo accordo il Paese si impegna semplicemente a certificare 10mila tonnellate di olio di palma da esportare in Svizzera a dazi doganali ridotti. Ma l’Indonesia non certificherà l’intera sua produzione di olio di palma. Non si intravede alcuna volontà di andare verso un maggior rispetto dell’ambiente e dei diritti umani.

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