L'acquisto di Doncic da parte dei Lakers va a compensare il fallimento (tecnico ma non commerciale) dell'ingaggio di Bronny, il figlio di Lebron James
Negli ultimi giorni, la notizia più importante giunta dal Nord America – parlando di sport, s’intende – è quella relativa al clamoroso passaggio di Luka Doncic, oggi il miglior cestista in circolazione, ai Los Angeles Lakers, una fra le più prestigiose franchigie del pianeta.
Il trasferimento ha fatto scalpore perché – oltre a essere del tutto inatteso – al giocatore frutterà un vagone di fantastiliardi, mentre ai Dallas Mavericks, che l’hanno venduto poco intelligentemente, resterà in saccoccia ben poco oltre ai rimpianti: logiche, assai poco comprensibili, di una lega come l’Nba.
I dirigenti californiani, che negli ultimi 15 anni hanno vinto un solo titolo, hanno realizzato l’operazione con vari intenti, il primo dei quali è far giocare insieme la quarantenne superstar Lebron James, a lungo dominatore del gioco, e il venticinquenne sloveno, che rappresenta invece il futuro: arriverà infatti il giorno in cui il vecchio campione dovrà ritirarsi, e in questo modo i Lakers hanno voluto tutelarsi in vista del passaggio di consegne.
Del resto, fin da fine anni 70 – quando venne rilevata dal lungimirante Jerry Buss – la squadra gialloviola è famosa per rinascere periodicamente dalle proprie ceneri. Nel 1979, per rilanciare le azioni della sua franchigia e tornare a vincere un anello che mancava ormai da una decina d’anni, Buss decise di portare al Forum (l’arena compresa nel pacchetto d’acquisto) allettanti spettacoli di contorno: svestì le cheerleader quanto nessuno aveva mai osato, introdusse le orchestre per la musica dal vivo durante le gare, tolse alla stampa le poltrone della prima fila e le offrì agli attori più celebri di Hollywood, alle stelle televisive e agli idoli del rock.
Per fondare una nuova dinastia dominante, a ogni modo, serviva un altro pezzo del puzzle, e cioè i giocatori forti: e così, al draft, i Lakers si assicurarono i servigi di Magic Johnson, re del basket universitario che si affacciava nel mondo dei professionisti con le stimmate del Messia. Talento in campo e glamour sugli spalti si rivelarono la ricetta vincente non solo per i californiani, ma per l’intera Nba, che grazie all’impulso dato da Buss conobbe un autentico Rinascimento dopo anni in cui aveva rischiato la bancarotta: palazzetti deserti, copertura tv quasi nulla, stipendi al ribasso e atleti schiavi di ogni tipo di droga.
Dopo un decennio di successi strepitosi (5 titoli in 9 stagioni), il ciclo si esaurì – per ragioni anagrafiche e per la sieropositività di Magic – e Los Angeles impiegò qualche tempo prima di sfoderare una nuova soluzione vincente: mettere assieme Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, i migliori della propria epoca, capaci di firmare un’altra età dell’oro in riva al Pacifico.
In realtà, la dirigenza californiana già la scorsa estate, necessitando di un’ennesima grande idea per il proprio rilancio, credeva di aver scovato una formula infallibile, ma i risultati di tale operazione non si sono mostrati così buoni come auspicavano. Avevano infatti pensato bene, al draft, di chiamare Bronny, il ventenne primogenito del già citato Lebron James, certi che la mossa li avrebbe tolti dalle ambasce. Ma non fu così.
A livello commerciale, si capisce, tutto funzionò a meraviglia: tv e sponsor di ogni genere – allettati dalla prospettiva di veder giocare insieme genitore e pargolo – riversarono grana a vagoni nelle casse del club e dei diretti interessati. A livello sportivo, però, il fallimento fu totale. Il rampollo, infatti, che già nei campionati studenteschi non brillava come il papà si aspettava, una volta giunto fra i professionisti riuscì soltanto a palesare tutti i suoi enormi limiti tecnici e fisici. Agli allenatori non restò che mandarlo a farsi le ossa in una squadretta satellite nella lega di sviluppo della Nba, mentre i risultati dei Lakers, ovviamente, restarono inferiori al desiderato.
L’operazione Doncic, dunque, va a coprire il parziale flop del colpo-Bronny, perché – per quanto se ne dica – i campionati non si vincono solo coi soldi e le cheerleader scosciate: a essere determinante è sempre la classe.