Hockey

Igor Larionov, il Professore ha una nuova cattedra

Il leggendario ex attaccante che passò dal Ticino guiderà l'Under 20 russa. 'Sogno una squadra bella da vedere, che diverta i ragazzi. E che abbia successo'

Krainbucher
4 luglio 2020
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Sembra sorpreso Igor Larionov, quando vede squillare il telefono mentre si trova a Mosca e s’accorge che la chiamata arriva dal Ticino. «Sì? Come va? Ah benissimo. Anzi, direi fantasticamente». E il Covid? «No no, ora qui è tutto aperto. È come se si fosse tutto risolto. Posso fare tante cose, senza alcuna restrizione. Un po’ come quando ero a Lugano con John Slettvoll: senza restrizioni (ride, ndr)».

Igor Larionov, leggenda dell’hockey che non necessita certo di presentazioni, soprannominato Il Professore per via degli occhiali ma soprattutto per intelligenza ed equilibrio dentro e fuori dal ghiaccio, sa bene che quella non è una semplice telefonata di cortesia. Lui che dopo aver appeso i pattini al chiodo ha iniziato la carriera di agente, prima di dedicarsi all’altra sua grande passione, il vino, è tornato sotto le luci della ribalta firmando un contratto biennale come allenatore della Nazionale russa Under20. «La verità è che si tratta di un ruolo che non comporta una grande pressione pur essendo un posto importante, visto che oggi come oggi il Mondiale Under20 è il torneo che più conta nell’hockey moderno, perché realmente in pista trovi il meglio del meglio» racconta il 59enne nativo di Voskresensk, a un’ora e mezza d’auto dalla capitale, che da tempo però ha scelto di vivere negli States. «Sono eccitato dall’idea di poter costruire una squadra seguendo la mia visione. Ho già in testa diversi giocatori interessanti che terrò d'occhio durante l’estate, facendo un giro nei diversi campi d’allenamento. Voglio una Russia che sia bella da vedere, e che permetta ai ragazzi di divertirsi. Ma che, naturalmente, abbia pure successo».

Chi è stato a convincerti ad accettare quel posto? Tretiak, il capo della Federazione che un tempo era il ‘tuo’ portiere, nel superblocco sovietico con Krutov, Makarov, Kasatonov e Fetisov? «Sì, sì, è stato proprio Vladislav. Lui e Roman Rotenberg, il capo dello staff delle nazionali, avevano chiesto di incontrarmi per propormi di lavorare fino alle Olimpiadi del 2022 a Pechino, in Cina. E io ho accettato, entusiasmato dall’idea di poter dare il mio contributo. Ora potrò rendere partecipi i ragazzi più giovani delle mie abilità e delle mie conoscenze».

Certo che però, dalla partenza di Oleg Znaroks alla vigilia dei Mondiali 2018, con l'arrivo di Bragin in Russia siete già al terzo avvicendamento di allenatore in panchina… «Su questo non posso fare commenti. Prima di tutto perché non ho mai vissuto in quell’ambiente e devo ancora cominciare con l'incarico di headcoach della Under20, ma soprattutto perché ho vissuto gli ultimi trent’anni in Nordamerica. E poi adesso ho una sola cosa in testa: costruire una squadra di ragazzi forti e di talento, come spiegai a Bragin un anno fa, la prima volta che ne discutemmo».

Bragin che dopo aver diretto la Under20 ora allena la Russia 'vera': e se dopo il 2022 dovesse toccasse a te lo stesso tipo di promozione? «Direi che è un po’ presto per dirlo. Di sicuro, tra me e Valeri c’è un'ottima collaborazione. Oltre alla Russia lui allena pure lo Ska San Pietroburgo, in Khl, e ci terremo costantemente in contatto, scambiando le nostre impressioni sul processo che porterà alla selezione dei giocatori. Poi si vedrà».

 Tu sei un prodotto dell’hockey di un tempo, del metodo di un Viktor Tikhonov che non è mai stato tuo grande amico… Qual è, oggi, la filosofia dell’Igor Larionov allenatore? «In verità ho vissuto due esperienze distinte. C’erano sì Tikhonov, la linea Klm (Krutov, Larionov, Makarov, ndr) e la Grande Russia, ma poi è arrivata anche l’altra importante fase della mia carriera, quella nordamericana (1’071 partite, condite da ben 741 punti, ndr). Quelli, però, erano altri tempi. Ora è tutto diverso, a cominciare dai giocatori. Bisogna adattarsi, trovare un modo per comunicare, per connettersi con questi ragazzi. Bisogna saperli far maturare, aiutarli a progredire. È questo il mio obiettivo. E voglio riuscire a ottenerlo facendo il minor numero di errori possibile».

Quando si allena i giovani, bisogna anche saper toccare i tasti giusti pensando alla motivazione. Come intendi lavorare da questo punto di vista? «È quella la chiave di tutto. Non esiste nulla di più motivante di poter giocare per la tua nazione, di indossare quella maglia a un Mondiale. Dove ti ritrovi sotto la lente d’ingrandimento degli scout e dei general manager delle migliori squadre del pianeta. Dev'essere questo lo stimolo per arrivare fin lì, per essere di quella partita. E io farò da parafulmine per quei ragazzi, attirando su di me tutta la pressione affinché possano sentirsi liberi di dare il meglio di loro stessi e concentrarsi sul gioco. Ma dovrò pure gli argomenti per permettere a tutti di fare un ulteriore passo, per poter beneficiare di una prospettiva migliore».

Per te si prospettano molti voli avanti e indietro da Mosca... «Erano trent’anni che non vivevo qui, e ora ci sto da sei mesi. Ero venuto per assistere ai playoff della Khl, ma poi hanno chiuso tutto. Mia moglie Elena e Igor (junior, ndr) sono a Detroit, dove viviamo ormai da dodici anni, mentre Alyonka è rimasta bloccata a Londra a causa della pandemia, dopo essere andata a trovare l’altra mia figlia, Diana. E io me ne sto qui da solo, in Russia, a leggere libri e a lavorare per prepararmi il mio nuovo ruolo di allenatore. Ed è vero che i voli tra Mosca e New York adesso ci sono, quindi potrei tornare avendo la Greencard, ma al mio rientro correrei il rischio di dovermi sottoporre a un periodo di quarantena, e fra poco debuttano i campi d’allenamento delle varie squadre. Quindi direi che è più saggio aspettare che si riapra tutto, prima di muoversi».

A proposito di famiglia: Elena di cosa si occupa? «Di prendersi cura di tutti, a cominciare dal cane e di mio figlio Igor. Diana invece si è stabilita a Londra, e fa la truccatrice, mentre Alyonka è diventata ‘life coach’ e vive in California. Dove si occupa pure dell'altro mio business, quello del vino».

Che ne, è, invece dell’Igor Larionov (padre) che faceva l’agente? «È un capitolo chiuso, quello. Adesso sono un allenatore a tutti gli effetti: ho rinunciato a quella licenza da più di un anno, ormai».

Tornando agli States, i playoff della National Hockey League si faranno oppure no? «Dovrebbero, nel mese di agosto dalle informazioni che circolano. Ma da qui ad allora possono succederne di cose».

Così come non c’è certezza che le stelle della National Hockey League tornino alle Olimpiadi, fra due anni in Cina. «Sarebbe una cosa fantastica per l’hockey, ma è difficile fare previsioni adesso. Anché perché la pandemia ha avuto i suoi effetti su tutto e in tutto il mondo. Cominciamo a vedere cosa succederà in questa stagione. Chissà, magari fra sei mesi ne sapremo di più».

Però non c’è solo l’hockey. Negli States, ad esempio, l’attenzione nelle ultime settimane è stata catturata dalle proteste di piazza che divampano ormai da fine maggio, dall’episodio che aveva portato alla morte di George Floyd. «Io non sono uno a cui piace parlare di politica. Però, come tutti del resto, pur trovandomi adesso a Mosca so bene cosa sta succedendo negli States. E direi che è triste, oltre che preoccupante».

Ma c’è un altro episodio che si può definire preoccupante, pur se sui giornali se n'è parlato meno: è quello capitato a inizio giugno a Norilsk, in Siberia, dove il crollo di una cisterna ha sversato nel fiume Ambarnaya oltre ventimila tonnellate di diesel... «È una brutta storia. E per noi un disastro nazionale. Bisogna prestare attenzione quando si parla di ambiente: serve che la gente faccia tutto quanto è possibile per proteggere il nostro pianeta negli anni a venire. I cambiamenti a livello planetario sono lì da vedere».

‘Ivano è diventato russo, ora lo chiamano Zanatov’

Nella tua vita, correva la stagione 1992/1993, c’è stata anche una parentesi ticinese, a Lugano, appunto. Hai ancora qualche legame? «C’è una persona che ha lavorato a lungo alla Resega e con cui parlo spessissimo, cioè Ivano Zanatta. Ma ormai si è trapiantato in Russia, visto che è qui da un sacco di anni. Quindi adesso in sostanza è un russo, lo chiamano Ivan Zanatov (ride di gusto, ndr). Di sicuro, se dovessi tornare in Ticino andrei molto volentieri a fare un giro a Tesserete, a trovare Guido al ristorante Stazione. Chissà se è ancora lì…».

L'attualità, invece? «Ho seguito con interesse ciò che ha fatto Elvis (Merzllikins, ndr) e devo dire di averlo visto davvero bene pure a Columbus. Ma un portiere non lo si può giudicare dopo cinque o dieci partite: serve un ‘track record’, dopo un buon inizio ci vogliono quaranta o cinquanta match. Solo a quel punto si possono tirare le somme».

Merzlikins, Auston Matthews o ancora Dominik Kubalik: la Svizzera sembra un buon posto per far maturare talenti... «Se è così, vi dico che mio figlio Igor ha ventun’anni e farà il campo d'allenamento con i Los Angeles Kings, poi vedremo fin dove arriverà. Però sì, potrebbe essere una buona idea portarlo per una stagione in Europa. Se è bravo, potrebbe giocare più di venticinque minuti a partita, e sarebbe tutto di guadagnato».

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