Hockey

Luca Cereda, l’Ambrì e il vento contro

Alla Valascia oggi c’è il Berna, per l'ennesima tappa del tour de Force. ‘È come se fossimo in mezzo a una bufera, ma stringendo i denti ne usciremo’

22 ottobre 2019
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Di nuovo in pista. E quella col Berna è già la ventiduesima partita tra impegni in campionato, in Champions e pure in Coppa Svizzera, per l’Ambrì di Luca Cereda. In un vero e proprio tour de force iniziato quest’estate, la sera del 29 agosto a Monaco di Baviera. «Che nota darei alla mia squadra? Direi un quattro, fin qui – dice un raffreddato Luca Cereda, senza pensarci su troppo –. Infatti, se in Champions abbiamo avuto delle buone partite, a cui darei senz’altro cinque, in campionato, specialmente all’inizio, ci sono stati troppi alti e bassi. Poi sarà vero che ci sono state poche partite davvero brutte, ma anche poche veramente belle. Pian piano ci stiamo arrivando, insomma, ma la strada è ancora bella lunga».

Il problema è che dopo i Conz, i Novotny e gli Zwerger, su quella stessa strada ora avete lasciato anche Sabolic. Anche se è vero che, a breve, dovrebbe fare il suo rientro Novotny, visto che i tempi di recupero dopo l’operazione ai legamenti del ginocchio parlavano di metà novembre. «Già, il termine è sempre quello, ma secondo me non è così vicino al ritorno alla competizione. Infatti, se è vero che settimana scorsa ha pattinato, questa settimana non ha invece potuto farlo, perché il suoi ginocchio deve rimanere a riposo».

Quindi quella di tornare sul mercato è una seria opzione? «Il fatto è che prima di decidere qualsiasi cosa dovremo avere davanti tutte le tessere del puzzle, e ora come ora non abbiamo ancora preso decisioni in merito alla posizione del portiere straniero. Poi le licenze non sono infinite. E i soldi neppure».

Le energie nemmeno, però. A luglio parlasti di energie mentali più che fisiche, lanciando una stagione a dir poco dispendiosa tra Champions, Coppa, campionato e, ancora, Spengler. Adesso a che punto siete? «Siamo che davanti a noi ci sono ancora un paio di settimane dure, dopo due mesi e mezzo in cui abbiamo avuto davvero tante partite. Mentre a novembre, se guardiamo al calendario, verrebbe da dire che avremo quasi quasi il problema opposto, cioè quello di riuscire a tener alto il ritmo... Diciamo che ora ci troviamo in una situazione in cui abbiamo il vento contro. È come se fossimo in mezzo a una bufera, anche pensando alla serie di infortuni che ci è capitata. Spiace pensando ai giocatori stessi, ma pure al resto del gruppo, siccome quegli infortuni hanno colpito degli elementi che erano in crescita».

Le avversità come si combattono? «In questi due anni ci siamo sempre concentrati sulle soluzioni, invece di piangerci addosso. Quindi supereremo anche questa, stringendo i denti. Anzi, sarà un ottimo test per noi. Come squadra, come dirigenza, come staff, come tifo: se daremo tutti quel due, tre per cento in più sono sicuro che dalla tempesta usciremo rafforzati».

Anche perché non è certo adesso il momento in cui tutto si decide. «La verità è che in uno sport come l’hockey non si può pensare di restare sei o sette mesi sulla cresta dell’onda: ci saranno sempre degli alti e bassi, legati al momento di forma di ciascuno dei giocatori. La sfida per ogni allenatore è quella di far sì che il livello di emozioni e di lucidità di quel gruppo resti il più elevato possibile. Perché la fatica fisica la si può recuperare, mentre è più difficile farlo con quella emotiva. Ad esempio, talvolta facciamo allenamenti che sono molto più duri e dispendiosi rispetto a una partita, ma in allenamento non c’è lo stesso dispendio a livello di emozioni. E noi, che a quei livelli eravamo tutti dei debuttanti, dei ‘rookie’, non so come dire, nelle prime partite di Champions abbiamo speso molto a livello emotivo, in partite davvero intense, con avversari scafati».

Di quell’esperienza cosa rimarrà? «Tantissimo. Dal piano organizzativo, siccome abbiamo potuto osservare come si lavora in altri club europei, anche in ambito giovanile, e sono esempi che potremmo seguire, a quello sportivo. Affrontando squadre abituate a primeggiare a casa loro, come Färjestad, Monaco e Banska, abbiamo potuto mettere alla prova noi stessi. E i nostri giovani hanno toccato con mano cosa significhi affrontare avversari del genere, beneficiandone più che se avessero potuto semplicemente analizzarli guardando un filmato. Penso ad esempio alla tecnica per entrare nei duelli con il bastone, la forza stessa sul bastone, la protezione del disco eccetera. Questo per ciò che riguarda la tecnica individuale. Ma poi c’è la maturità, e quella viene da sola col tempo. Ricordo quando da ragazzino, ai primi allenamenti con i grandi, eri fermamente convinto di riuscire a ingannare questo o quel giocatore, invece grazie alla sua esperienza era lui a fregare te».

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