Hockey

Julien Vauclair, quarant'anni e non sentirli

Entrato negli 'anta' mercoledì, il giurassiano numero tre del Lugano guarda avanti con determinazione. ‘La voglia di vincere mi motiva’

5 ottobre 2019
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‘Questa è l’ultima stagione’. È un ritornello che da qualche anno a questa parte, va ripetendosi Julien Vauclair. Ma il numero 3 del Lugano, in barba anche all’anagrafe (40 anni compiuti l’altroieri) è sempre lì, con i pattini ai piedi e il bastone in mano, autentico pilastro della difesa bianconera. «Ma questa è l’ultima per davvero – esordisce il giurassiano –. Se devo essere sincero, quando nel 1997 sono arrivato qui a Lugano, da diciassettenne, sognavo sì di calcare regolarmente le piste di Lega nazionale A, ma non pensavo che ci sarei riuscito più a lungo che per un paio o tre stagioni. Non mi reputavo all’altezza... ». Ventidue anni dopo il suo arrivo – e dopo una parentesi di tre stagioni oltre Atlantico – però, Julien Vauclair è ancora al suo posto, e con indosso la stessa maglia che portava in occasione del suo esordio nel massimo campionato. «Il primo a esserne stato sorpreso è il sottoscritto!».

Cosa significa per te il fatto di essere rimasto a Lugano per così tanti anni? «Il club è un po’ come la mia casa. Questa società rappresenta tutto per me. In cima alla scala dei miei valori c’è la famiglia, ma subito dopo c’è il Lugano. Se faccio due conti, ho trascorso forse più anni qui che nel Canton Giura... Quando immaginavo il mio dopo-carriera da giocatore, non mi vedevo in altri ambiti se non con una mansione in seno al Lugano».

Cosa spinge un giocatore ad arrivare al traguardo dei 40 anni con ancora i pattini ai piedi e il bastone in mano? «Sicuramente un ruolo fondamentale lo gioca la voglia di vincere e di andare avanti. Sono tanti anni ormai che lavoro in funzione di questo, giorno dopo giorno. Il mio obiettivo, come vent’anni fa, è quello di andare sempre un passo più in là, di vincere ancora una volta. Sono diversi anni che lottiamo per il titolo, e più di una volta l’abbiamo mancato d’un niente. La voglia di alzare nuovamente al cielo la coppa c’è, ed è quella che mi spinge a continuare a lottare con determinazione».

È cambiato l’hockey in questi anni? «Sì, sensibilmente direi. Soprattutto nella velocità di esecuzione: tutto si è fatto più rapido. E si è anche dato un taglio decisamente più professionale. Non solo sul ghiaccio: pure la preparazione ha conosciuto una notevole evoluzione. C’è anche molta più attenzione all’alimentazione e alla cura del nostro corpo. Oggi più che mai nulla viene lasciato al caso».

Smessi i panni del giocatore, dall’anno prossimo per Julien Vauclair inizierà una nuova carriera (sempre in bianconero): quella di direttore dello scouting. Andrai alla ricerca... del nuovo Julien Vauclair? «L’obiettivo ideale dovrebbe essere quello: trovare un giocatore simile a me per ideali e attaccamento al club. È sempre più difficile trovare un giocatore di valore che rimanga il più a lungo fedele alla società, ma è questo il bello della sfida che mi attende dalla prossima stagione».

‘Giocare in Nhl era come fare l’astronauta’

In oltre vent’anni di militanza nel massimo campionato, l’album dei ricordi di Julien Vauclair è zeppo di aneddoti. Quali sono le pagine che, sfogliandole, ti procurano ancora oggi le emozioni più forti? «Sono davvero tante! Ma uno dei ricordi più forti che ho è la rete di mio fratello Geoffrey alla Valascia nella partita che ci consegnò il titolo (lunedì 5 aprile 1999, finì 1-3, ndr). Aver potuto condividere con lui un momento così è stato fantastico!».

Per un po’ Julien Vauclair ha pure respirato l’aria della Nhl, in un’epoca in cui per i giocatori svizzeri quello nordamericano era un sogno difficilissimo da realizzare. Tre le stagioni trascorse oltre Atlantico, prima un anno con i Grand Rapids Griffins e poi due con i Binghamton Senators in Ahl. Ma nella stagione 2003/04 il giurassiano, per una partita, ha pure calcato la ribalta della Nhl con la maglia degli Ottawa Senators: «Quella nordamericana è stata una bellissima esperienza, che mi ha fatto crescere, come giocatore e come persona. Andare via, solo e lontano da casa, in un posto così, e con una conoscenza solo mediocre dell’inglese è un po’ come un salto nel buio, ma aiuta a farti le ossa. Ho disputato una sola partita in Nhl, è vero, ma sono contento di esserci arrivato, e di averci provato. E a casa ci sono tornato arricchito e con tanta esperienza in più. Se considero che, come dicevo, a inizio carriera non mi immaginavo nemmeno di poter giocare nel nostro massimo campionato, il fatto di aver addirittura respirato l’aria della Nhl, seppure per una sola volta, è comunque qualcosa di straordinario».

È più facile per un giocatore svizzero cercare di ritagliarsi spazio in Nhl oggi? «Sì, sicuramente. La mentalità dei giovani è cambiata: per loro la Nhl non è più un sogno, ma qualcosa di reale a cui ambire in modo concreto. Per quelli della mia età, andare in America era più un sogno, un po’ come quello di fare il pilota di Formula 1 o andare sulla Luna. Oggi non è più così, i giovani si allenano pensando di andare a giocare in Nhl un giorno o l’altro».

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