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Nuggets, un successo dalle radici profonde

Grazie soprattutto all’apporto di Nikola Jokic, votato Mvp delle finali, Denver è riuscita contro i pronostici a conquistare il suo primo titolo Nba

In sintesi:
  • Denver, dopo 47 anni, conquista finalmente il suo primo anello Nba
  • Gran parte del merito va a Jokic, stella sempre più splendente del firmamento del basket serbo
14 giugno 2023
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Al termine di Gara-5 delle Nba Finals, mentre gli alacri inservienti della Ball Arena preparano il palco per la premiazione c’è una strana pace, alimentata dalla serafica serenità di Nikola Jokic, MVP delle finali e primo giocatore della storia in grado di chiudere i playoff al primo posto per punti, rimbalzi e assist. «Il lavoro è finito ora. Possiamo andare a casa», dice il serbo ancora con i piedi sul parquet, lasciando intendere che quanto appena accaduto sia stato una semplice formalità, come timbrare il cartellino o rispondere a quella mail che è lì da giorni.

In realtà quello che è successo è l’esatto contrario: i Denver Nuggets hanno appena vinto il titolo NBA 2022/23, il primo della loro storia dopo 47 anni di attesa. Lo hanno fatto con una squadra che nessuno dava per favorita a inizio stagione né tra gli addetti ai lavori, né tra i bookmaker di Las Vegas, spesso perfetti nelle loro previsioni ma che questa volta non hanno avuto l’occhio lungo.

Una squadra che tutti hanno continuato a sottovalutare, dandola per perdente man mano che le sfide diventano più difficili, preferendogli di volta in volta avversari con stelle più appariscenti e scafate, allenatori più vincenti, roster più talentuosi.

Dovrebbe esserci quindi stupore, eccitazione, voglia di riscatto, di dire qualcosa a qualcuno. Eppure i festeggiamenti di pubblico e giocatori sembrano la cosa più naturale del mondo, l’unico finale possibile di questa storia, come se tutta questa attesa fosse servita solo a rendere Denver più consapevole e decisa nel prendersi il titolo.

La stagione della franchigia del Colorado – che gioca le sue partite a 1’600 metri d’altezza, mettendo in difficoltà le capacità polmonari dei suoi avversari meno abituati – è stata semplicemente straordinaria: il miglior record a Ovest della stagione regolare, poi le vittorie contro Minnesota Timberwolves, Phoenix Suns, Los Angeles Lakers prima di sbarazzarsi dei Miami Heat in finale con un perentorio 4 a 1. Un percorso fatto da 16 vittorie e solo 4 sconfitte che ha pochi eguali nella storia della Nba e che racconta di una squadra che nel momento giusto ha “fatto click”, riuscendo a ottenere il massimo da tutti i suoi giocatori.

La serata decisiva

Lo hanno dimostrato anche nella gara decisiva contro gli Heat, una vittoria per 94 a 89 arrivata sul filo di lana, al termine di una partita durissima fatta di tiri che non entravano da nessuna parte, di giocatori che si lanciavano a terra, di palle perse in maniera banale e di altre recuperate in maniera eroica.

Una partita che fin da subito si è allontanata da quella che è la pallacanestro ideale di Denver, fatta di fluidità, logica ed esecuzione per entrare in un territorio più congeniale agli Heat di Spoelstra, meno talentuosi ma secondi a nessuno quando si tratta di hustle plays, tutti quei momenti della partita dove conta l’energia, la voglia di arrivare prima dell’avversario, di sacrificare il proprio corpo.
Anche nella tempesta, però, Denver è riuscita ad affidarsi a Jokic. Il serbo ha chiuso la sua partita con 28 punti e 16 rimbalzi, tirando 12 su 16 dal campo mentre intorno a lui c’era un festival di tiri sbagliati ed errori (Denver a fine primo tempo era 1 su 15 da tre, 9 su 19 ai liberi prima dei 4 finali tutti segnati). Trovare un modo per marcarlo è un enigma da almeno tre anni, ma in questi playoff è diventato sinceramente impossibile.

Miami ci ha provato per tutta la serie, mettendo Bam Adebayo sulle sue piste, raddoppiando quando necessario, provando la zona, cercando di non fargli arrivare il pallone, anche saltandogli addosso, ma niente. Sul +7 a meno di cinque minuti dalla fine sembrava fatta per Denver, ma Miami, che era ancora più sfavorita, arrivata in finale con un percorso improbabile e pittoresco, ha trovato la forza di tornare sotto come quasi sempre gli è accaduto in questi playoff.

Addirittura grazie a 13 punti consecutivi di Jimmy Butler gli Heat sono riusciti a portarsi in vantaggio di un punto quando mancavano due minuti alla fine. È stato quello il momento in cui Denver poteva cadere, la serie tornare a Miami e rimettere tutto in discussione.
A quel punto però, a decidere la partita e serie (e il titolo), sono arrivate le giocate inattese di due comprimari. Il canestro del sorpasso è stato opera di Bruce Bowen, dopo aver catturato un rimbalzo che non gli spettava, poi è toccato a Kentavious Caldwell-Pope che intercettando un passaggio sciagurato di Butler ha definitivamente indirizzato la sfida verso Denver.

Non un caso: se Jokic e Murray sono l’alfa e l’omega di questa squadra, il miglior duo offensivo della stagione, questa vittoria è anche e soprattutto merito di un roster dove tutti conoscono il proprio ruolo e sanno bene come svolgerlo. Una squadra frutto di un lavoro certosino da parte della dirigenza di Denver, durato ben nove anni ed estremamente atipico nella Nba di oggi, dove è tutto cotto e mangiato, dove bisogna vincere subito e se non si riesce bisogna cambiare per dare alle proprie stelle quello che serve.

Una vittoria che parte da lontano

Lo ha specificato lo stesso Jokic in conferenza stampa, dopo aver preso il posto davanti ai microfoni a discapito del povero Caldwell-Pope, a cui ha versato mezza lattina di birra in testa. «È stato un lungo viaggio», ha detto il serbo, «l’esperienza non è quello che ti succede, ma come reagisci a quello che ti succede. Ci sono delle tappe da fare per arrivare alla vittoria, e non ci sono scorciatoie».

E il viaggio verso il titolo di Denver è iniziato proprio con lui, quando la franchigia del Colorado – chissà con quanta bravura e con quanta fortuna – l’ha scelto con la chiamata numero 41 del Draft 2014, affidandolo alle mani di Mike Malone, rimasto l’allenatore per tutti questi anni, nonostante in più di un’occasione si era parlato di possibile licenziamento. In quel momento Jokic era sconosciuto ai più, definito dai vari report come un grande talento, ma fuori forma, lento e non adatto al gioco moderno. Report che oggi sappiamo essere sbagliati.
Due anni dopo è arrivato Jamal Murray e da quel momento, con pazienza e qualche errore, intorno a loro due Denver ha costruito la squadra che ha vinto il titolo resistendo anche alla tentazione di scambiare per qualche stella più pronta o con più impatto mediatico. Nel 2018 è toccato a Michael Porter Jr, una scelta azzardata per un giocatore alle prese con costanti problemi alla schiena, mentre nell’inverno del 2021 è stata fatta la mossa forse decisiva, sacrificando una prima scelta per arrivare ad Aaron Gordon, che si è dimostrato il pezzo mancante di questa squadra, che senza gli infortuni sarebbe diventata competitiva anche prima di questa stagione.
In estate poi, a prezzo di saldo, Denver è riuscita a migliorare ulteriormente aggiungendo una serie di gregari e veterani che si sono dimostrati il perfetto completamento dei quattro giocatori più importanti. Kentavious Caldwell-Pope, Bruce Brown, Jeff Green, Christian Braun, ognuno con le sue qualità ma soprattutto tutti capaci di difendere forte, mettere un tiro quando serve e tagliare verso il canestro per assecondare la genialità di Jokic e Murray.

E ora?

Mentre alza il Larry O’Brien Trophy, il trofeo a forma di colonna sghemba con un pallone da basket sopra che viene dato al vincitore della NBA, in attesa che ogni giocatore riceva il suo personale anello di campione, Mike Malone già pensa al futuro. «We want more», grida, vogliamo di più. E non c’è niente per non pensare che questi Nuggets siano una squadra fatta per restare e non una one-season-wonder. I giocatori più importanti hanno tutti meno di 30 anni (Jokic 28, Gordon 27, Murray 26, Porter Jr. 24) e contratti lunghi.

L’unico elemento importante che probabilmente perderanno in estate è Brown, ma la dirigenza ha già dimostrato di sapere come sostituire i pezzi. Intanto giovedì a Denver ci sarà la parata per la vittoria e poi arriverà il momento del riposo per la squadra e lo staff, con Jokic che ha già fatto capire che tutto quello che vuole è tornare in Serbia dai suoi cavalli.

In un momento in cui l’Nba è diventata un terreno di caccia, visto il declino dei Golden State Warriors e con LeBron James che non potrà durare per sempre, i Denver Nuggets sono emersi con grande naturalezza diventando la squadra da battere.

Ma in questa Lega non si può mai stare tranquilli: mentre loro sono a festeggiare tra sigari e champagne, le altre franchigie già stanno lavorando per spodestarli, tra possibili mosse di mercato e intense sessioni in palestra. È l’Nba del periodo che va da giugno a ottobre, quel periodo in cui tutto è possibile. Quello che è certo è che, al ritorno, a indossare meritatamente l’anello saranno i Denver Nuggets.

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