Da studente, senza un franco in tasca ero felice
Ero studente quando salendo sulla cima dell’Hochstuckli subii un grave congelamento alle mani. Il barometro marcava -27. In 3, con le pelli di foca salimmo sulla cima. Al ritorno, scottature di 1° 2° e 3° grado appoggiando le mani su un calorifero rovente. Ignoravo che col congelamento, si perde la totale sensibilità degli arti. Non ci si accorge, nemmeno quando gli arti bruciano. Il male impazza dopo! Una ragazza vicina, accortasi della puzza di bruciato, corse scioccata dal suo maestro, che strofinandomi energicamente neve sulle mani, tentò di ripristinare il flusso sanguigno. Con un effetto disastroso. La pelle si staccava a pezzi. Restava la carne viva. Scesi col solo sci utilizzabile per il ripido bosco fino a Schwyz, accompagnato da un amico.
Nell’infermeria, gli sciatori congelati a naso, orecchie e zigomi erano molti. Ero il più grave. La Suora mi portò una vasca di acqua fredda e ovatta dicendomi: “Massaggia con le dita (inusabili!) in direzione del cuore domani viene il medico”. E sparì. Il dolore divenne tanto forte che non riconobbi due amici venuti ad aiutarmi. Le dita si gonfiarono. Divennero gialle e nere sulle punte, come due mazzi di banane. La notte peggiorai. L’effetto è come se ti martellano le dita.
Ogni sedativo è vietato. Al contrario devesi rianimare! Il medico arrivò la mattina seguente. Ripassò il secondo giorno e bisbigliò alla suora: “Morgen im Spital, wird amputiert”. L’idea di perdere l’uso delle mani, mi assillò. L’amico biaschese, m’infilò giacca e calzoni sopra il pigiama e fuggii alla stazione. Aspettavo mio fratello per raggiungere Bodio, dove abitava la mia famiglia. Mio padre Giuseppe insisteva di partire subito per l’ospedale di Bellinzona, ma la stessa sera crollai, ero sfinito. Non stavo in piedi! Lo supplicai di aprirmi la porta della camera.
Ogni ora persa poteva essere fatale e lui non aprì. Nella follia del dolore, iniziai a demolirla a calci e scarponi. L’aprirono. Cascai sul letto, in un sopimento o semicoma. La mattina, ebbero difficoltà a svegliarmi. L’autista N.N. mi portò al San Giovanni. All’improvviso mi svegliai. Una ventina di facce d’angelo vestite di bianco, mi osservavano, come per dirmi: “Benvenuto nell’aldilà…”. Nessuno apriva bocca. Panicato mi sollevai e capii: il dottor Molo aveva convocato una sezione di infermiere, e spiegava quel che vedeva. Iniziò la degenza seguita da numerosi e dolorosi interventi giornalieri con operazioni, che si protrassero per mesi. Sempre senza sedativi. Dulcis in fundo, mi tolsero una dopo l’altra le unghie per far sì che le nuove crescessero dritte. Come avvenne.
A parte i dolori, m’assillava un “tormento”: dipendere in tutto e per tutto dalla suora o infermiera, per imboccarmi e il resto. La professionalità dei medici Molo e collaboratori mi regalarono un paio di mani nuove.
Dopo due mesi, quando dissero: “Domani vai a casa”, capii che la felicità non si compra. Da studente, senza un franco in tasca ero felice. Grazie al sostegno morale dei miei familiari e amici, riuscii a superare tutto.