L'editoriale

Se quel verde non ha campo

27 ottobre 2015
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Prima o poi ci passano tutti. È un percorso obbligato. Chiusa la stagione felice, quella che ha fatto la fortuna del movimento, segue il tracollo perché l’idea forte – che pareva capace di travolgere ogni cosa sin lì pensata – in verità si rivela come tutte le altre che l’hanno preceduta: accettabile. Vincente per un periodo, riassorbita (fagocitata dal sistema, si sarebbe detto una volta) negli anni che seguono e dunque ‘banale’ normalità. Perché patrimonio di tutti. È capitato, dalle nostre parti, per valori come la libertà e la democrazia. Ed è un bene, ma anche un paradosso: conferma la bontà del movimento che li ha promossi, i valori assimilati, e al contempo ridimensiona gli stessi attori. È quanto sta capitando ai Verdi del Ticino (e a ben vedere dell’intera Europa). Oggi siamo tutti un po’ ambientalisti ed è su quel poco che si fa la differenza. Vinta la battaglia morale (non ancora politica, perché quella casomai ha tempi storicamente lunghi), cala l’attenzione e si presenta il bivio: restare i ‘vigilantes’ autorizzati del nuovo sapere o espandere il proprio territorio politico là dove prima non si pensava di andare? Detta altrimenti, restare movimento tematico o trasformarsi in partito vero e proprio? È su questo che ragionano da mesi anche i militanti dei Verdi del Ticino. Ed è partendo da qui, molto probabilmente, che si deciderà il nome del prossimo – o prossima – coordinatore cantonale. Ogni nuova tendenza politica (e non solo), proprio perché tale, ha la presunzione di cancellare le fondamenta su cui poggiava in precedenza il sistema; presunzione che in verità ne è anche la forza. Di solito passa crescendo. Ampliandosi le responsabilità, anche i ‘rivoluzionari’ si trasformano in ‘normali’ e quanto prima appariva vecchio, superato, si riscopre ricco di nuove suggestioni. Prendete le categorie ‘destra’ e ‘sinistra’ oggi considerate retaggi del passato. Dai Verdi del Ticino, ad esempio, o almeno da un’ampia fetta del movimento. In verità è comodo – ma non vogliamo dire che lo fanno apposta – battersi per un tema attuale, che funziona, senza impegnarsi troppo col contesto in cui si colloca il tema in questione. Senza storicizzarlo, per dirla bene, e dunque inserirlo in una dimensione davvero politica. È comodo perché così ogni volta si gira pagina, magari sul contrario del precedente, e nessuno se ne accorge (o quasi). Perché capite bene che se destra, ad esempio, significa difendere in primo luogo la libertà del cittadino, ogni interferenza statale (poco importa quale) va combattuta. Per coerenza. Poi c’è il compromesso, che va argomentato. Facile, molto più facile, battersi contro un inceneritore perché ‘brutto’ di suo, a prescindere. La trasformazione dei Verdi in partito, se dev’essere, passa dunque da una scelta di campo. Come del resto è avvenuto a livello nazionale. Devono decidere da che parte stare. Perché ampliando la strategia e legando più contenuti, si finisce col presentare un progetto per il Paese. Che poi è questa la vera missione (oggi si direbbe impossibile) dei partiti. E ogni progetto degno di questo nome, in politica ha una connotazione, non è e non può essere neutro. Sarà l’Assemblea dei delegati in agenda il prossimo 15 novembre a decidere. A noi resta solo un’ultima constatazione. I Verdi del Ticino in questi anni hanno ottenuto numerosi risultati e vinto una vera battaglia: l’iniziativa popolare sui salari minimi. Un progetto ambizioso che supera la contingenza e che possiamo senz’altro definire di sinistra. Una vittoria che, ci permettiamo di osservare, non va sprecata.

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