laR+ il commento

Matematica di una tregua

Numeri ingigantiti, smontati, rimontati o inventati. E la difficoltà, per israeliani e palestinesi, di trovarsi davvero alla stessa pagina

In sintesi:
  • Giorno di guerra 467. Stessa cifra, due significati opposti
  • Nelle ore in cui tutto potrebbe sistemarsi c’è chi, come Ben-Gvir, fa di tutto per continuare una guerra sempre più assurda
‘Bibi, metti fine a questa c... di guerra’
(Keystone)
15 gennaio 2025
|

Ospite, recentemente, del podcast Tintoria, Nino Frassica sta per leggere un dialogo del suo ultimo libro insieme a uno dei due conduttori, ma non trova la pagina giusta. Il conduttore, che ha in mano un’altra copia, la individua e gli dice: “51”. E lui: “Nel tuo”. Risate.

Il nonsense, che funziona bene nella comicità, deraglia e origina catene di guai altrove. In guerra, ad esempio, dove il senso di ogni cosa viene stravolto a tal punto che perfino i numeri vengono svuotati di significato: ingigantiti, minimizzati, occultati, smontati e rimontati come in un Lego, se non addirittura inventati, come se si potesse ridurre la matematica a un gioco di prestigio.

Israele e Palestina si ritrovano in queste ore a cercare la stessa pagina del libro, la tregua, con cui iniziare un dialogo che possa portare a una pace duratura. E qui, anche se non fa ridere, c’è da scommetterci che – se mai la troveranno – non sarà per entrambi “pagina 51”. Ripartire dallo stesso punto vivendo (e morendo) da sempre su due piani diversi è un’acrobazia mentale che necessita una fiducia che in questo momento, da quelle parti, nessuno sembra più avere. È come illudersi di fare incontrare due personaggi dentro un quadro di Escher, dove le regole della realtà in cui si muovono sono state stravolte. Parliamo di due popoli che non solo faticano a trovarsi sulla stessa pagina, ma che nemmeno vivono nello stesso anno: siamo nel 1446 per il calendario islamico; nel 5785 per quello ebraico.


Depositphotos
Ognuno li legge come più gli conviene

Di numero ce n’è uno incontrovertibile, eppure, in Medio Oriente (e pure in Occidente, a dirla tutta) non ci si riesce a mettere d’accordo nemmeno su quello. Dal 7 ottobre del 2023 a oggi sono passati 467 giorni: il governo e i giornali israeliani tengono il conto ricordando quanti ne sono passati da quella che ritengono un’azione volta allo sterminio del proprio popolo, ignorando (e così giustificando) tutte le nefandezze che loro ci hanno messo in mezzo; tra i filo-palestinesi c’è chi, usando lo stesso numero, parla di durata dell’“olocausto israelo-americano”. Insomma, se nemmeno lo stesso numero viene trattato al medesimo modo, difficile che questo accada quando si contano, si pesano gli esseri umani. E infatti non accade.

Il “mercato della morte” funziona come una Borsa qualunque, con cinici rialzi e ribassi che seguono interessi e riflettori accesi su una guerra o su un’altra. E si basano su amicizie, alleanze, verità parziali e bugie sesquipedali. Questo ‘cambio’ doloroso, sproporzionato e inumano viene ormai accettato a tal punto che anche chi ne è vittima lo dà per scontato, traendone perfino un vantaggio nell’immediato. Per riavere 5 soldati, Tel Aviv dovrà liberare 250 detenuti. Nei giorni scorsi veniva presa per buona l’equivalenza 3’300 palestinesi per 33 ostaggi israeliani. Una sproporzione che solo apparentemente avvantaggia Hamas. Sono i primi, così facendo, ad ammettere che la vita di un israeliano valga quanto quelle di 100 loro concittadini. Stando alle ultime stime le vittime palestinesi sono oltre 46mila in 466 giorni. Cento ogni 24 ore. Una sconfitta per tutti. Anche per chi guarda, come noi, da lontano.


X
Un quadro di M. C. Escher

Poi c’è uno che guarda da vicino. Vicinissimo. Seduto a destra, anzi all’ultradestra di Netanyahu (che è tutto dire). Si chiama Itamar Ben-Gvir ed è il ministro israeliano della Sicurezza nazionale. Ieri si è vantato di aver bloccato più volte, nell’ultimo anno, un accordo che avrebbe evitato migliaia di vittime. Oltre alla fatica di trovare la pagina giusta, israeliani e palestinesi devono guardarsi anche da chi vuole, ogni volta, strapparla.