laR+ IL COMMENTO

La pistola di Čechov e il liberismo da filodrammatica

Prima gli imprenditori nostrani sostengono il decreto Morisoli, poi si lamentano perché lo Stato non dà loro abbastanza appalti

In sintesi:
  • Il grido d'allarme degli imprenditori rivela quanta pochezza si celi dietro alle velleità d'austerity
  • Il problema è che allo scoperto ci finiscono i lavoratori
Il gabbiano
(Keystone)
26 aprile 2023
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Se nel primo atto compare in scena una pistola, prima del sipario finale dovrà sparare. La vecchia regola di Anton Čechov torna utile in questi giorni, non tanto per leggere le disavventure lacustri di qualche improvvido poliziotto, quanto piuttosto per spiegare cosa stia accadendo ai nostri austeristi da filodrammatica. I quali – dopo avere sostenuto con commovente trasporto il decreto Morisoli per il pareggio del conto economico entro il 2025 – ora denunciano tutti inciprigniti la diminuzione di appalti pubblici per le loro aziende. Confermando così che il meno Stato alla ticinese è una ben strana chimera: si applica sempre e solo agli altri.

Eppure era chiaro fin dall’inizio, che l’ordigno morisoliano avrebbe rischiato di colpire un po’ tutti: sono tra sì e no 150 i milioni che ci si è impuntati a recuperare in fretta e furia – sebbene non ve ne sia alcuna urgenza – escludendo di raggiungere il pareggio con nuove imposte. Ovvio che non basterà risparmiare sui toner della stampante e i ficus nei corridoi. Ha dunque un bel dire, il presidente della Camera di commercio Andrea Gehri, che “il decreto Morisoli, al quale siamo ancora favorevoli, riguarda la spesa, non gli investimenti. La politica deve quindi interpretarlo nel suo vero significato, senza pregiudizi e fini politici”.

Il severo richiamo allo spirito della legge – a mezza via tra Montesquieu e un talmudista – serve a poco: la differenza tra spesa e investimento è spesso meno ovvia di quanto si potrebbe pensare. Per evitare di arrivare fin qui, occorreva semmai chiedersi se e cosa si potesse tagliare prima di impegnarsi a farlo, mica dopo. Invece ha vinto il pregiudizio, l’idea che gli impiegati pubblici siano tutti lì a far la polvere alla scrivania, il perbenismo per cui lo Stato dovrebbe comportarsi come “un buon padre di famiglia” (paragone stucchevole oltre che sintomo d’un certo analfabetismo economico, specie in un Paese in cui l’indebitamento privato risulta ben più pericoloso di quello pubblico).

Vien da chiosare coi meno paradisiaci tra i versi danteschi: “Rimossa ogne menzogna / lascia pur grattar dov’è la rogna”. Però sarebbe infantile e meschino gingillarsi con la Schadenfreude. Anche perché si sapeva già che certi audaci imprenditori dipendono più spesso dalla mano pubblica che da quella invisibile; ma ora a rischiare il posto sono i lavoratori, specie in un settore duro e capriccioso come l’edilizia.

Di solito, a questo punto, noi neghittosi commentatori scriviamo che si attendono risposte dalla politica. Solo che “la politica” è la stessa che ha venduto alle imprese quest’alzata d’ingegno, per cui ci tocca affrontare tempi difficili con le mani legate. Nessuno, poi, dimentica la farsesca messinscena con la quale ci si è arrivati: l’Udc che fa il poliziotto cattivo sulle spese selvagge; il Plr che finge d’essere quello buono dicendo che si deve intervenire sulle spese sì, ma “prioritariamente” e (forse, chissà) non esclusivamente; le imprese che abboccano all’amo d’una trovata puramente propagandistica; gli elettori che plebiscitano il progetto perché i “fuchi”, si sa, sono sempre gli altri.

Difficile, dunque, farsi troppe illusioni. I Catone del liberismo sulla pelle altrui continueranno senza troppe erubescenze a intonare i loro ‘delenda Carthago’, anche se la Cartagine da distruggere è quella in cui abitiamo tutti. Quanto alla pistola di Čechov, riusciremo a brandirla per spararci sui piedi.

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