Commento

Canfora, l’Ucraina e il nazismo frainteso

Il filologo dimostra di non avere ben chiaro cosa intenda davvero Putin quando parla di ‘denazificazione’. Come lui, molti altri fanno confusione

Luciano Canfora
(Wikimedia Commons)
15 aprile 2022
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"Giorgia Meloni, essendo neonazista nell’animo, si è subito schierata con i neonazisti ucraini". Dixit Luciano Canfora. Cosa deve pensare di fronte a parole del genere uno che si considera tutto sommato progressista, che ha sempre stimato il Canfora filologo – molto meno l’ideologo – e vede in Meloni e nei suoi caricaturali ‘Fratelli d’Italia’ un coacervo di velleità fascistoidi e ignoranza belluina? La prima cosa che mi viene in mente è che due torti non fanno una ragione: se Meloni si può effettivamente considerare, se non neonazista, quantomeno piuttosto nostalgica di "quando c’era Lui, caro lei", Canfora prende una cantonata quando al neonazismo associa l’Ucraina. Questo non solo perché la componente nazista tra le truppe e i politici ucraini è marginale – difficilmente più rilevante di quella che possiamo identificare in Russia e altrove – ma anche perché sposando la versione del Cremlino il grecista compie un clamoroso errore di traduzione (proprio lui che come nessuno sa giocare col vecchio Rocci, storico dizionario sul quale noi poveri ginnasiali sudavamo sette camicie). Si direbbe infatti che quando Putin parla di "denazificazione", Canfora pensi ai baffetti di Hitler, alle Ss, ai dobermann. Invece "lui" (caro lei) ha verosimilmente in testa tutta un’altra traduzione: nell’architettura politica che ne sostiene le gesta – come ci spiega Luca Lovisolo qui – è nazista qualsiasi cosa percepita come antirussa, specie se puzza d’occidente: dal liberalismo ai diritti civili, dalla democrazia all’Europa. Un "ripiegamento semantico" che ha una lunga tradizione, se si pensa che a Est il muro di Berlino era chiamato "barriera di protezione antifascista".

Ovviamente il problema non è il surciglioso Canfora, archiviabile semmai come bel tomo di quella gerontocrazia accademica che adegua la realtà ai suoi pregiudizi, imbracciati a vent’anni e mai più abbandonati anche se intanto il mondo è cambiato (d’altronde "se il popolo non è d’accordo col Comitato centrale, bisognerà nominare un nuovo popolo", come insegna una citazione attribuita a Bertolt Brecht). Il problema vero è che molti altri sposano questa interpretazione delle cose. Distratti e indifferenti sottoscrivono lo stesso dubbio sull’equivalenza tra le ragioni dell’aggressore e quelle dell’aggredito, e a quel punto vale tutto. O meglio, non vale più niente: non valgono pluriennali testimonianze, articoli, dichiarazioni bellicose confermate da massacri, stupri e fosse comuni. Non valgono i conati di vomito mentre si sfogliano gli archivi per cercare la foto meno cruda da mettere in prima pagina, quando una mano bluastra che spunta dalla terra ci racconta quel che Putin ha in mente per l’Ucraina: smembramento, occupazione perpetua, rieducazione, se proprio serve anche deportazione e pulizia etnica.

Se poi non si capisce da che parte sta il fascismo, allora sfugge anche su che fronte stia la resistenza, e perché sia così necessario sostenerla e armarla. Come in Italia, dove per questo 25 aprile i finti eredi dei partigiani hanno già sbianchettato le immagini dei loro (dei miei) nonni col fucile in mano, sostituite dagli anodini acquerelli d’un neutralismo che costringerebbe gli ucraini alla resa incondizionata. Anche perché sul calendario si avvicina un’altra data storica: il 9 maggio, giorno in cui Putin si è prefisso di cantar vittoria sull’Ucraina. Guarda caso, lo stesso in cui la Russia commemora la vittoria sovietica sul nazismo. Quello vero, però.

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