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La ‘covid fatigue’ delle democrazie

Da un lato riaperture non del tutto giustificate dai numeri. Dall'altro la fatica sociale ed economica sempre più pesante

Martin Ackermann, capo della task force (Keystone)
19 aprile 2021
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Sì, le democrazie sono in affanno. Affanno da virus. La “Covid fatigue”, dice la stampa anglosassone. Un anno fa era diverso. La “democrazia sospesa” – limitazione di talune libertà e imposizioni per fronteggiare l’emergenza sanitaria – era stata sostanzialmente accettata, se non condivisa, dalle opinioni pubbliche dei paesi liberali. La paura – chiamiamola col suo nome –, la paura di una malattia nuova, all’assalto di società per lo più impreparate, imprevista per virulenza, aggressività, forza di rapida diffusione, numero di vittime, rischio di far collassare interi settori sanitari, aveva fatto da calmiere rispetto a ‘decisori’ evidentemente in difficoltà, impacciati, anche eccessivi per certi atteggiamenti, affermazioni (appartengo a una fascia d’età che avrebbe dovuto ‘mettersi in letargo’), e scarsa capacità/correttezza comunicativa (parzialmente complici anche noi della stampa). Scrivemmo, era inizio primavera 2020, che mica occorre essere la Cina, quindi una dittatura, per spuntarla grazie a condivise responsabilità individuali e collettive.

Un anno dopo, molto, se non tutto, è cambiato. Sulla paura ha preso il sopravvento appunto la fatica sempre più insostenibile dell’isolamento sociale, rapporti familiari spezzati, viaggi mancati, cultura sport attività del tempo libero annullati, settori economici aiutati ma non abbastanza, spossanti stop-and-go. Mettiamoci anche una certa idea della scienza, che per taluni, o deve tacere o deve essere cristallizzata e priva di dubbi, cosa che evidentemente non può essere. Sotto il peso di tanta insofferenza ci fu, a Berna, un tardo autunno di precipitosi e prematuri alleggerimenti, seguiti da inevitabili nuovi, improvvisati e parziali lockdown. Come altrove, del resto. Fino all’annuncio “miracoloso” dei vaccini anti-Corona, la cui sperimentazione è stata massicciamente finanziata con denaro pubblico, ma con gli stessi Stati pagatori che hanno supinamente accettato di ‘secretare’ i contratti, e che i tempi di distribuzione siano dettati dalle farmaceutiche. Così, anche da noi, campagne vaccinali spesso in ritardo.

Oggi ci risiamo. Con riaperture non del tutto giustificate dai numeri, secondo Martin Ackermann, il ‘molto inquieto’ capo della task force svizzera, che, ha rivelato, sulle ultime misure del Consiglio federale ‘non è stato né consultato né informato” (altro che “dittatura” degli scienziati, che molti vorrebbero silenziare); o in Italia l’infettivologo Galli, uno serio; e perfino l’“allarmato” Fauci nell’America super-vaccinata. Ma la “virus fatigue” sociale ed economica è troppo pesante. La democrazia non può non tenerne conto. Parla di ‘assunzione di rischio calcolato’, si riaffida al senso di responsabilità individuale. Anche in una Berna federale mai così divisa e rissosa, dove c’è addirittura chi la spara vaneggiando e disinvoltamente parlando di dittatura del Consiglio federale. Certo non come a Pechino, dove il numero uno del Centro nazionale di prevenzione può confessare che il vaccino cinese è “poco efficace”; o a Mosca, dove il Cremlino ancora non spiega perché solo il 4% dei russi è stato immunizzato dallo Sputnik, e tutti fanno scena muta. Certo, la democrazia vacilla, ma proprio perché è altra cosa. Per fortuna, continuiamo a pensare.

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