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Il velo, il burkini e la semi-democrazia del didietro

In certe iniziative si scorge un assunto comune: che la libertà di scelta e la dignità personale coincidano con l’esibizione del proprio corpo

(Keystone)
30 marzo 2021
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I primi tepori di stagione favoriscono repentini cambi d’armadio e la vieppiù democratica esibizione di porzioni di carne umana. In un mattino già tiepido, lungo il Viale fa la sua apparizione il lato b di una giovane dalle sembianze nostrane, eroicamente contenuto da un paio di shorts. Nel suo incedere gagliardo quanto nervoso, la ragazza getta occhiate oblique, chissà se ansiose o timorose degli sguardi altrui. Fra questi, quello di un’imperturbabile donna dai capelli velati. La domanda sorge spontanea, e democratica: quale fra queste due donne è più libera? Libera nelle proprie scelte, libera dal giudizio altrui?

L’esercizio di una democrazia semi-diretta sa essere appassionante, talvolta divertente. Gli oggetti meritevoli della nostra intelligenza sono come le ciliegie, uno tira l’altro. Ed è dimostrazione di decenza riconoscere i propri privilegi. Dunque, dopo aver votato sulle corna delle vacche, ci si è potuti serenamente disporre a farlo sul “divieto di dissimulazione del viso”, democratica formulazione dell’intento di proibire il velo islamico integrale. Ora, dopo un primo fallimento quindici anni fa e un altro recente al Nazionale, c’è chi già rilancia con il divieto del velo a scuola. Peraltro, a questo riguardo potrebbe bastare mezz’ora di chiacchiere con dei quindicenni: “Perché una collana col crocifisso sì? Perché un tatuaggio di Maria, Buddha, Charles Manson? E un velo no?”.

Sul cielo di Locarno, capitale del cinema e autoproclamato polo culturale, per anni ha aleggiato un dilemma: bandire il burkini dai lidi pubblici? Infine, il Municipio ha spiegato di non avere potere decisionale in materia. Eppure la maggioranza del Consiglio comunale aveva appoggiato la mozione, convinta che il burkini neghi i nostri “principi di dignità” e che accettarlo equivalga a “perdere poco a poco ciò che i nostri antenati hanno costruito”. Ecco, come non pensare alle nonne di questi consiglieri, le quali, gerla in spalla e zoccole ai piedi, hanno combattuto per mostrare al Cantone le parti migliori di sé, fiduciose che un giorno le loro nipoti avrebbero riconosciuto se stesse e la propria cultura in un due pezzi quanto più possibile mini?

A ben vedere, in queste proposte si scorge un assunto comune. Che i valori democratici e la libertà di scelta e perfino la dignità personale coincidano con la gioiosa esibizione del proprio corpo, in particolare se femminile. Cioè, un’autentica donna occidentale, tirata su a polenta e latte, nel pieno rispetto dei valori democratici e degli “usi e costumi” del suo paese, come può non desiderare di rivelare se stessa al mondo? E, se questo suggerisce il pensiero comune fiorito dalla piena libertà di scelta, a quale oscura forma di condizionamento sottostà una donna che copre i propri capelli o il proprio corpo?

Mentre mi avvito senza scampo su questi quesiti, riemerge il ricordo di giovane donna conosciuta in una scuola ticinese. Ha scelto di sfuggire i tagliagole e gli stereotipi del suo paese, ha attraversato due continenti, si è presa il diritto di studiare. E di continuare a indossare un velo. Finalmente, forse, la nostra democrazia le insegnerà che, a differenza delle sue coetanee con piercing e ombelico in vista, lei non è libera.

Nell’attesa mi associo alla serafica donna velata e contemplo la mia simile che, occhieggiando in qua e in là, porta lungo il Viale la libertà sua e delle sue antenate, compressa in un paio di shorts perfettamente adeguati al democratico gusto comune.

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