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Quella carezza è arte senza tempo

Trasposizione del calcio in arte: mentre gli avvoltoi svolazzano sulla salma del mito, noi celebriamo Maradona per una punizione: quella punizione, la punizione

3 dicembre 2020
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Era inevitabile che accadesse, che la morte di Maradona non venisse consegnata alla memoria nel silenzio e nel rispetto, come il lutto imporrebbe. Sulla salma, come era lecito attendersi, sono planati gli avvoltoi, attratti da un’eredità che è avvolta nel mistero al pari delle circostanze di una morte che è per negligenza, per abbandono, per diagnosi sbagliate, incuria, malasanità. Addirittura per scelta stessa del Pibe che si sarebbe lasciato morire, ormai rassegnato e stanco di confrontarsi con una vita che dopo averlo esaltato e consegnato all’immortalità avrebbe finito per travolgerlo. Fragile quanto basta per cadere vittima di deviazioni dalla retta via e tentazioni, troppo fragile per cercare l’ennesima rinascita.

Lasciamo che le indagini facciano il loro corso, che avvocati e parenti si scannino in un atto che sa di profanazione della tomba, per tornare per un attimo al genio che fu, in campo. Parla il campo, per gli sportivi è così. Non entriamo nel merito di come un fuoriclasse possa assurgere a mito e leggenda celebrata e amatissima a livello globale nonostante avesse fatto a pugni con la morale, per effetto di una condotta di vita riprovevole sotto molti punti di vista.

Possiamo, anzi dobbiamo (per l’ampiezza del fenomeno Maradona che trascende il terreno, figurarsi le analisi logiche) anche sorvolare sul fatto che ingannare rovinerebbe la carriera di ciascun campione di qualsivoglia disciplina, mentre a Maradona è successo il contrario. Non è forse paradossale che la conquista del titolo mondiale del 1986 con la sua amata Argentina l’abbia costruita partendo da un’azione dolosa e truffaldina, un fallo di mano volontario per ingannare l’avversario poi attribuito a Dio? Non somiglia a una bestemmia, lui poi così devoto e religioso? La questione è aperta, ma Maradona trascende, quindi risposta non c’è. El Diez è più forte anche della morale che nemmeno avrebbe senso fargli, figurarsi poi postuma.

C’è però il campo. Giudicarlo lì, sul suo terreno, è più facile. Discutendo con un collega a tarda sera, un gesto ha assunto improvvisamente un peso che non gli avevo dato, rapito dal ricordo, dalle emozioni, da vizi e stravizi, e da quella memorabile serpentina con la quale fece beffe dei calciatori inglesi, trasposizione dei soldati del Regno Unito schierati alle Falkland: andate a cercare su internet la punizione in Napoli-Juventus 1-0 del 3 novembre 1985. Tacconi ancora se la sogna. Si faccia avanti chi ha l’ardire di fornire una spiegazione tecnica a quel gesto. Nessuno vero? Perché non c’è spiegazione, non c’è logica. Troppo vicino alla porta, per metterla lì. Troppo astuto, Tacconi, per non rimediare. E invece, una carezza. Un gesto appena abbozzato, mica un calcio. Un buffetto complice all’amico pallone, suo alleato. Ovviamente gol.

Eccola, la certezza sulla quale è lecito sbilanciarsi senza timore di smentita: Maradona è arte, cambia ciò che lo circonda. La sua arte era il calcio. Concetti che cozzano l’uno contro l’altro, se non fosse che lui riusciva a conciliarli, unendo il sublime al pallone, il pallone ai sogni. Lasciamo perdere giudizi morali e confronti, accantoniamo le velleità di capire e concentriamoci su quella carezza. Un pezzo unico. Una pennellata, un’opera d’arte senza tempo. Come Maradona.

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